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martedì 10 maggio 2016

ALESSANDRO ZARLATTI: E’ GIUNTA L’ORA DEL TAMARRO CUBANO

POSTED BY ALESSANDRO ZARLATTI ON MAGGIO - 8 - 2016
 Alessandro Zarlatti

Riceviamo e volentieri pubblichiamo un commento inviatoci dal giornalista e scrittore italiano Alessandro Zarlatti sulla svolta economica e sociale che sta vivendo Cuba dopo la ‘riappacificazione’ con gli Stati Uniti. L’analisi di Zarlatti è impietosa e merita di essere  valutata.

Se chi legge crede che il denaro sia il metro per misurare lo stato di benessere e di felicità di un popolo, gli consiglio di interrompere qui la lettura. Nessuna demonizzazione del denaro, figurarsi, ma è un’analisi molto semplice: servono cifre sul Pil, sul reddito medio e il gioco è fatto. Perseguendo invece il buon-demone, e cioè percorrendo un tratto di una prospettiva eudemonica, cerco di dire due o tre cose che so di lei. Di Cuba, intendo, paese dove vivo e lavoro.
Sta cambiando? Sembra di sì. Aperture, dialoghi, collaborazioni economiche, forti investimenti. E’ ragionevole pensare che nei prossimi decenni il popolo cubano avrà il portafoglio più pieno e maggiori possibilità di scelta tra prodotti ed opportunità. Ora la domanda è: quando c’è più denaro c’è più felicità? Non lo so. Non in modo così automatico. Credo che il denaro possa concorrere a costruire un senso di soddisfazione, di non preoccupazione, di pace. E su questo terreno fertile credo possa attecchire qualche forma di felicità. Ma gli anni e l’esperienza mi dicono che procurarsi questa ricchezza ha un prezzo da pagare. Un prezzo che rema contro proprio a quella ricerca della felicità che si persegue. 
E’ qui il nodo, a mio parere, più importante. L’iniziativa privata, la conseguente divisione in classi, chi può e chi non può, “to have and to have not” direbbe Hemingway, la tanto celebrata concorrenza, sono elementi che infiacchiscono (in Italia lo sappiamo bene, io credo) fino ad uccidere ogni tipo di rete sociale, di buona comunicazione, di senso profondo di una comunità, in una parola sola: di sensibilità umana. Questo è il modello che tanto facilmente sta facendo proseliti a Cuba, un individualismo ottuso, e dai suoi primi esordi non promette nulla di buono.
Si sta affermando rapidamente una classe di nuovi “ricchi” cafoni e ignoranti. Sono parole dure ma è giusto chiamare lo cose col proprio nome. Si sta delineando la figura del tamarro (a Roma sarebbe il coatto, altrove avrebbe altri nomi) caraibico, così tanto a tinte disperatamente forti che Antonio Cassano al confronto è un pacato signore dai gusti raffinati. Ironizzo ma parlo di un cafone senza neanche duemila anni di storia e cultura a mitigare la sua tracotanza.
In occasione della visita di Obama, un amico giornalista che veniva da New York mi diceva con sconcerto: “Alessandro, da quello che vedo, i cubani giovani sono una massa di coatti allucinanti…”. Io mi chiudevo in un silenzio meditabondo. Il tamarro cubano ha la sua immancabile macchinona lavata, la sua musica di riferimento, il reggaeton, che gli conferma i suoi valori e i suoi principi, il suo concetto di un femminile imbarazzante, le sue puttane, il suo cinismo, il suo rifiuto per la cultura in ogni forma. Flirta con l’America di Fast and furious, stima tale Pitbull, si mette la croce al collo perchè l’ha visto fare a un dj e sogna denaro e ancora denaro. Ah, e ovviamente ha rimosso sessantanni di rivoluzione come fossero un incubo terrificante che complottava contro l’affermazione del suo meraviglioso ego sul pianeta terra.

Ometti da nulla, si potrebbe dire, se non fossero già la maggioranza. E il tamarro cubano è felice? No, credo che nel suo caso (come in quello di tutti i tamarri del mondo) non si possa neanche parlare di felicità. Stiamo ad un livello pre-umano nel quale felicità e infelicità si attestano ad un grado di elaborazione elementare come caldo-freddo, duro-morbido, ruvido-liscio. Ecco, il grosso rischio, a mio giudizio, è che i valori della Rivoluzione Cubana vengano messi in soffitta in una manciata di mesi da questo tipo di individui.

Cuba è una paese come mille altri dell’area. Non ha nulla di particolare. Non è più bello di altri. Spiagge, architettura coloniale anche un po’ sfasciata, belle ragazze. Punto. Per me l’unico, per molti versi incredibile, elemento di discontinuità nel moto perpetuo delle chiappe delle mulatte, dei ballerini con il ritmo nel sangue, dei dittatorelli con la faccia d’ananas, dei negretti sdentati che ti lustrano le scarpe, è stata la Rivoluzione Cubana.
Nelle sue mille contraddizioni e storture ha creato generazioni colte e solidali, strade personalissime nelle arti, nella ricerca scientifica, nella ricerca di quella che, in ultima analisi, è la meta di tutti, la felicità appunto. Ha sdoganato e reso alta la cultura negra, di per sè cultura della schiavitù, dell’animismo e della superstizione. Una cultura che senza la rivoluzione torna ad essere la zucca di Cenerentola senza la fatina. Ha integrato masse di esclusi, le ha istruite e le ha fatte sedere al grande tavolo della cosa comune per la firma del contratto sociale.

Ecco, tutto questo terrorizza il grande tamarro cubano, tutto questo è vissuto come un grande ostacolo alla realizzazione individuale dal grande tamarro cubano. Per lui chi studia è un coglione (mi ricorda qualcosa…), chi vuole fare le cose per bene, senza bustarelle e commissioni e pagando le tasse è un coglione (mi ricorda ancora qualcosa…), per lui chi dice timidamente che Fast and furious è immondizia è un coglione, retrogrado e conservatore. Bene. Credo (temo) che il giovane cubano nei prossimi anni avrà più soldi nel portafoglio ma li spenderà tutti per assicurarsi il cofanetto completo di Pitbull o la crema che promette di sterminare la cellulite di un intero quartiere e sarà roso dal sospetto costante di aver perso qualcosa per strada, forse le chiavi di casa, o forse qualcosa di più importante che proprio non riesce a ricordare.


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