ON MAGGIO - 8 - 2016
Riceviamo e
volentieri pubblichiamo un commento inviatoci dal giornalista e scrittore
italiano Alessandro Zarlatti sulla svolta economica e sociale che sta vivendo
Cuba dopo la ‘riappacificazione’ con gli Stati Uniti. L’analisi di Zarlatti è
impietosa e merita di essere valutata.
Se chi legge crede
che il denaro sia il metro per misurare lo stato di benessere e di felicità di
un popolo, gli consiglio di interrompere qui la lettura.
Nessuna demonizzazione del denaro, figurarsi, ma è un’analisi molto
semplice: servono cifre sul Pil, sul reddito medio e il gioco è fatto.
Perseguendo invece il buon-demone, e cioè percorrendo un tratto di una
prospettiva eudemonica, cerco di dire due o tre cose che so di lei. Di Cuba,
intendo, paese dove vivo e lavoro.
Sta cambiando? Sembra
di sì. Aperture, dialoghi, collaborazioni economiche, forti investimenti. E’
ragionevole pensare che nei prossimi decenni il popolo cubano avrà il
portafoglio più pieno e maggiori possibilità di scelta tra prodotti ed
opportunità. Ora la domanda è: quando c’è più denaro c’è più felicità? Non lo so.
Non in modo così automatico. Credo che il denaro possa concorrere a costruire
un senso di soddisfazione, di non preoccupazione, di pace. E su questo terreno
fertile credo possa attecchire qualche forma di felicità. Ma gli anni e
l’esperienza mi dicono che procurarsi questa ricchezza ha un prezzo da pagare.
Un prezzo che rema contro proprio a quella ricerca della felicità che si
persegue.
E’ qui il nodo, a mio
parere, più importante. L’iniziativa privata, la conseguente divisione in
classi, chi può e chi non può, “to have and to have not” direbbe Hemingway, la
tanto celebrata concorrenza, sono elementi che infiacchiscono (in Italia lo
sappiamo bene, io credo) fino ad uccidere ogni tipo di rete sociale, di buona
comunicazione, di senso profondo di una comunità, in una parola sola: di
sensibilità umana. Questo è il modello che tanto facilmente sta facendo
proseliti a Cuba, un individualismo ottuso, e dai suoi primi esordi non
promette nulla di buono.
Si sta affermando
rapidamente una classe di nuovi “ricchi” cafoni e ignoranti. Sono parole dure
ma è giusto chiamare lo cose col proprio nome. Si sta delineando la figura del
tamarro (a Roma sarebbe il coatto, altrove avrebbe altri nomi) caraibico, così
tanto a tinte disperatamente forti che Antonio Cassano al confronto è un pacato
signore dai gusti raffinati. Ironizzo ma parlo di un cafone senza neanche
duemila anni di storia e cultura a mitigare la sua tracotanza.
In occasione della
visita di Obama, un amico giornalista che veniva da New York mi diceva con
sconcerto: “Alessandro, da quello che vedo, i cubani giovani sono una massa di
coatti allucinanti…”. Io mi chiudevo in un silenzio meditabondo. Il tamarro
cubano ha la sua immancabile macchinona lavata, la sua musica di riferimento,
il reggaeton, che gli conferma i suoi valori e i suoi principi, il suo concetto
di un femminile imbarazzante, le sue puttane, il suo cinismo, il suo rifiuto
per la cultura in ogni forma. Flirta con l’America di Fast and furious, stima
tale Pitbull, si mette la croce al collo perchè l’ha visto fare a un dj e sogna
denaro e ancora denaro. Ah, e ovviamente ha rimosso sessantanni di rivoluzione
come fossero un incubo terrificante che complottava contro l’affermazione del
suo meraviglioso ego sul pianeta terra.
Ometti da nulla, si
potrebbe dire, se non fossero già la maggioranza. E il tamarro cubano è felice?
No, credo che nel suo caso (come in quello di tutti i tamarri del mondo) non si
possa neanche parlare di felicità. Stiamo ad un livello pre-umano nel quale
felicità e infelicità si attestano ad un grado di elaborazione elementare come
caldo-freddo, duro-morbido, ruvido-liscio. Ecco, il grosso rischio, a mio
giudizio, è che i valori della Rivoluzione Cubana vengano messi in soffitta in
una manciata di mesi da questo tipo di individui.
Cuba è una paese come
mille altri dell’area. Non ha nulla di particolare. Non è più bello di altri.
Spiagge, architettura coloniale anche un po’ sfasciata, belle ragazze. Punto.
Per me l’unico, per molti versi incredibile, elemento di discontinuità nel moto
perpetuo delle chiappe delle mulatte, dei ballerini con il ritmo nel sangue,
dei dittatorelli con la faccia d’ananas, dei negretti sdentati che ti lustrano
le scarpe, è stata la
Rivoluzione Cubana.
Nelle sue mille
contraddizioni e storture ha creato generazioni colte e solidali, strade
personalissime nelle arti, nella ricerca scientifica, nella ricerca di quella
che, in ultima analisi, è la meta di tutti, la felicità appunto. Ha sdoganato e
reso alta la cultura negra, di per sè cultura della schiavitù, dell’animismo e
della superstizione. Una cultura che senza la rivoluzione torna ad essere la
zucca di Cenerentola senza la fatina. Ha integrato masse di esclusi, le ha
istruite e le ha fatte sedere al grande tavolo della cosa comune per la firma del
contratto sociale.
Ecco, tutto questo
terrorizza il grande tamarro cubano, tutto questo è vissuto come un grande
ostacolo alla realizzazione individuale dal grande tamarro cubano. Per lui chi
studia è un coglione (mi ricorda qualcosa…), chi vuole fare le cose per bene,
senza bustarelle e commissioni e pagando le tasse è un coglione (mi ricorda
ancora qualcosa…), per lui chi dice timidamente che Fast and furious è
immondizia è un coglione, retrogrado e conservatore. Bene. Credo (temo) che il
giovane cubano nei prossimi anni avrà più soldi nel portafoglio ma li spenderà
tutti per assicurarsi il cofanetto completo di Pitbull o la crema che promette
di sterminare la cellulite di un intero quartiere e sarà roso dal sospetto
costante di aver perso qualcosa per strada, forse le chiavi di casa, o forse
qualcosa di più importante che proprio non riesce a ricordare.
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