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giovedì 20 novembre 2014

Quanto male mi fai, L’Avana!

Yoani Sánchez. 


 
17 Novembre 2014

L’Avana è una città di grida e di sussurri. Chi si sofferma nel suo baccano, non riuscirà mai ad ascoltare il
suo bisbiglio.
Questa è una città che affoga le sue pene nell’alcol







Essere dell’Avana non significa essere nati in un luogo, significa portarsi quel luogo sulle spalle, non riuscire a staccarsene. La prima volta in cui mi resi conto di appartenere a questa città, avevo sette anni. Mi trovavo in un piccolo villaggio di Villa Clara e cercavo di raggiungere un frutto di guaiava su un ramo, quando un nugolo di ragazzini del posto circondarono me e mia sorella. “Sono dell’Avana! Sono dell’Avana!”, strillavano. In quel momento non riuscimmo a capire tutta quella confusione, ma con il tempo ci rendemmo conto del triste privilegio che ci era stato concesso. L’essere nate in quest'urbe decaduta, in questa città la cui maggior attrattiva è ciò che poteva essere, non ciò che è.
Sono del tutto urbana, cittadina. Sono cresciuta in una zona del quartiere di Cayo Hueso, dove gli alberi più vicini si trovavano a più di cinquecento metri. Mi sento figlia dell’asfalto, dell’odore di cherosene, degli stendini che gocciolano dai balconi e dei condotti fognari che tracimano di tanto in tanto. Questa non è mai stata una città facile. Nemmeno nelle cartoline per i turisti, con i loro colori ritoccati, si riesce a vedere un’Avana confortevole e comprensibile.
A volte non voglio percorrerla a piedi, perché mi fa male. Risalgo Belascoaín, il mare mi resta alle spalle con quella brezza che conosco così bene. Arrivo all’angolo con calle Reina. C’è una chiesa in stile gotico, che quando ero piccola mi dava l’impressione di perdersi tra le nuvole. Lì vidi per la prima volta un albero di Natale quando avevo diciassette anni. Procedo attraverso i portici, facendo un salto qui e un altro là. Rigagnoli d’acqua scorrono da qualche scala e una signora cerca di vendermi alcune creme di latte che hanno lo stesso colore della strada.
Riesco già a vedere il semaforo di Galiano, ma il passo rallenta perché ci sono molte persone. Un poliziotto gira l’angolo e qualcuno si nasconde dietro le porte o entra nei negozi come per comprare qualcosa. Quando la guardia se ne sarà andata, torneranno a offrire la loro mercanzia in un brontolio. Perché L’Avana è una città di grida e di sussurri. Chi si sofferma nel suo baccano, non riuscirà mai ad ascoltare il suo bisbiglio. Le cose più importanti si dicono sempre con un segno, un gesto o un semplice scatto delle labbra che ti avverte, “attenzione”, “sta arrivando”, “seguimi”. Un linguaggio sviluppato in decenni di clandestinità e illegalità.
Calle Neptuno è vicina. Ho sentito una coppia di anziani dire davanti a una facciata: “Eh, qui non c’era…?”. Ma non sono riuscita a sentire la fine della frase. Meglio così, perché L’Avana è una sequenza di rimpianti, di ricordi. Quando uno la percorre a piedi, è come se transitasse lungo il sentiero delle perdite. Dove viene demolito un edificio, si lasciano le macerie per giorni, per settimane. Poi nel vuoto che è rimasto costruiscono un parcheggio, o sistemano un chiosco metallico per vendere saponi, chincaglierie e rhum. Tanto rhum, perché questa è una città che affoga le sue pene nell’alcol.
Arrivo fino al Malecón. In meno di mezz’ora ho percorso la parte di città che durante l’infanzia mi sembrava la contenesse tutta. Perché ero una “guajiradel Centro Avana”, di quelle che pensano che dopo calle Infanta inizino “le zone verdi”. Con il tempo ho capito che questa capitale è troppo grande per conoscerla. Ho compreso anche che la stessa sensazione di dolore la provano quelli nati a Diez de Octubre, al Cerro, al Vedado o a Mariano. È lo stesso, L’Avana mostra le sue ferite in ogni quartiere.
Tocco il muro che ci separa dal mare. È ruvido e caldo. Dove saranno quei ragazzini che durante la mia infanzia – in un minuscolo villaggio – mi guardavano con stupore perché ero dell’Avana? Vorranno portare questo fardello? Saranno finiti anche loro in questa città, a vivere tra le sue discariche e le sue luci? A loro fa male quanto a me? Sono certa di sì, perché L’Avana non è soltanto quella collocazione scritta nel nostro documento d’identità. Questa città è una croce che ti porti da tutte le parti, un luogo che una volta vissuto non ti abbandona più.

Yoani Sánchez
(da Generación Y, in 14ymedio, 16 novembre 2014)

Traduzione di Silvia Bertoli

Settimana della cultura italiana

Dal 24 novembre al 30 novembre


Programma



CUBA IN PRIMA LINEA CONTRO EBOLA. MA L’EMBARGO USA FRENA GLI AIUTI


L’appello del «New York Times»: stop alle sanzioni, collaboriamo per fermare i contagi



AP
Alcuni operatori sanitari a Freetown, in Sierra Leone

22/10/2014

ENRICO CAPORALE

Oltre 160 tra medici e infermieri inviati in Sierra Leone, circa 300 al lavoro in Liberia e Guinea. Ormai non c’è dubbio: il Paese che sta facendo di più contro Ebola è Cuba. Nelle settimane scorse anche l’Organizzazione mondiale per la sanità (Oms) l’ha confermato, invitando gli altri Paesi a seguire il suo esempio (i medici cubani, d’altronde, sono da sempre in prima linea nelle missioni umanitarie all’estero). Ma gli sforzi dell’isola caraibica sarebbero molto più efficaci se coordinati con gli Stati Uniti, il Paese che sta donando più soldi per arginare l’epidemia (750 milioni di dollari). Il problema? L’embargo imposto all’indomani della Rivoluzione castrista (1959). Le sanzioni Usa impediscono ai medici cubani di avere accesso ad attrezzature moderne e medicinali, aumentando così il rischio contagi.
In un lungo editoriale non firmato (che rappresenta quindi la linea del giornale), il «New York Times» si chiede se l’embargo ha ancora senso e se non rischia invece di frenare gli sforzi internazionali per contrastare il virus in Africa Occidentale (dove i morti hanno superato quota 4500). «Mentre Washington (insieme ad altre nazioni) - scrive il quotidiano - ha stanziato fondi, solo l’Havana ha inviato quello che serve davvero: personale medico qualificato. È una vergogna che i due Paesi non abbiano nessun rapporto diplomatico».
Insomma, un attacco bello e buono. Ma soprattutto un invito all’amministrazione Obama a ristabilire relazioni con Cuba «perché i lati positivi sono più di quelli negativi». Infine, il «New York Times» ricorda che un ipotetico sbarco di Ebola a Cuba potrebbe aumentare le probabilità di una diffusione negli Stati Uniti (già nel 2010 i medici cubani ebbero un ruolo fondamentale ad Haiti nel curare i malati di colera dopo il terremoto, ma alcuni tornarono a casa con il virus e l’Havana dovette affrontare la sua prima epidemia di colera dopo cento anni).
Pochi giorni fa, in un articolo su «Granma», Fidel Castro ha offerto collaborazione agli Stati Uniti nella lotta a Ebola. «La pace per il mondo - ha scritto l’ex presidente cubano - è un obiettivo che si può e si deve perseguire. Coopereremo con piacere con il personale nordamericano in questo compito». La palla ora passa a Obama.

martedì 11 novembre 2014

Cuba: mano aperta, pugno chiuso

Di Raul Rivero da Tellusfolio



10 Novembre 2014
  
Con la generosità prodigata da Dilma Rousseff al governo cubano ora vigilata da una potente opposizione, e nel mezzo della débâcle venezuelana dinnanzi alla caduta dei prezzi del petrolio e l’inclinazione al fallimento di Nicolás Maduro, il regime di Cuba intensifica la ricerca di denaro in altri luoghi per rimanere al potere.
Le figure principali della dittatura, previdenti e prudenti, si trovano da molti mesi, come lì si dice in linguaggio colloquiale, con l’acqua alla gola. E questi messaggi d’aiuto hanno avuto risonanza nell’Unione Europea, in alcuni settori della società nordamericana e in un gruppo di cubani ricchi, pragmatici e dalla pessima memoria.
Le risposte più importanti, sul piano politico quanto economico, sono quelle arrivate dal vecchio continente. L’Europa ha avuto quest’anno due cicli di discussioni con il castrismo per raggiungere un accordo di collaborazione che sostituisse la cosiddetta Posizione Comune assunta dall’Unione Europea su proposta del governo di José María Aznar nel 1996. Rimane un altro incontro che si terrà a dicembre all’Avana.
La realtà è che non c’è bisogno di aspettare che gli europei e gli uomini del socialismo reale firmino un documento di cordialità, amicizia e vicinanza.
Ad aprile, il ministro francese Laurent Fabius è volato a Cuba per animare la primavera dissimulata del Caribe. Anche i suoi colleghi norvegesi e olandesi sono andati a prendere il sole, e a ottobre, Hugo Swire, viceministro degli esteri inglese, ha risposto con entusiasmo all’SOS dei cubani con una visita durante la quale ha affermato, di fronte a un gruppo di isolani presi dai postumi di una sbornia: “Sono qui per dimostrare l’appoggio del Regno Unito rispetto ai cambiamenti economici attuati da Cuba”.
Proprio a ottobre, nove dissidenti sono stati condannati a pene tra i due e i sette anni di carcere e altri 12 sono rimasti in attesa di giudizio disposto dalla polizia. In questo stesso mese ci sono state 413 detenzioni arbitrarie per motivi politici, 13 oppositori sono stati vittime di aggressioni fisiche e gruppi paramilitari hanno preso d’assalto le residenze di otto attivisti dei diritti umani.
Nessuno dei viaggiatori ha guardato la strada dai finestrini delle limousine che li trasportavano dagli hotel di lusso ai saloni in cui avrebbero firmato accordi e abbracciato funzionari del governo.
Il ministro degli esteri spagnolo José Manuel García-Margallo (foto Alerta Digital) si recherà a Cuba questo mese.

Raúl Rivero
(da El Mundo, 6 ottobre 2014
preso in Desde La Habana, 08/11/2014)

Traduzione di Silvia Bertoli

giovedì 6 novembre 2014

Reinaldo Escobar. Da cosa ti sei salvato, Camilo



30 Ottobre 2014
  
Com’è possibile che in tutti questi anni, in cui non è rimasto un solo metro quadro da esplorare, non sia emersa una traccia (…)?


Per la prima e l’ultima volta, lo vidi da lontano per una frazione di secondo il 21 ottobre del 1959, giorno in cui passava da Camagüey per arrestare il comandante Huber Matos. Nessuno capiva nulla, ma la presenza di Camilo in mezzo alla confusione ci faceva sperare che tutto sarebbe andato per il meglio.
I dettagli del momento in cui venne data la notizia della sua scomparsa (una settimana più tardi), li ho cancellati dalla mia memoria, ma non ho scordato l’istante in cui venne annunciata la falsa notizia del suo ritrovamento. La gente in strada tirava fuori bandiere e quadri della Vergine della Carità. La gioia fu breve, ma indimenticabile.
Per molto tempo ebbi la convinzione che sarebbe potuto apparire da un momento all’altro. Negli anni in cui mi credevo poeta scrissi addirittura alcuni brevi versi che descrivevano il suo ritorno. Tutte le volte che volavo tra Camagüey e l’Avana, ogni volta che l’ho fatto, mi sono domandato per quale ragione sarei potuto precipitare in mare… come fa un Cessna, che non prende mai abbastanza quota, a cadere in un altro posto che non sia la piattaforma insulare? Com’è possibile che in tutti questi anni, in cui non è rimasto un solo metro quadro da esplorare, non sia emersa una traccia, una parte del motore, le eliche, che ne so…
Se fosse sopravvissuto a ciò che gli è accaduto e non fosse rimasto coinvolto in un altro incidente simile, Camilo Cienfuegos sarebbe un altro ottuagenario nella cupola del potere. Se non fosse stato destituito, incarcerato o fucilato, oggi porterebbe la responsabilità del disastro nazionale.
Non ci staremmo più chiedendo se fosse più popolare dell’“altro”, piuttosto se fosse altrettanto colpevole.
Proprio ora, mentre scrivo queste righe, gli studenti camminano con dei fiori verso il malecón, anche le persone che lavorano negli uffici escono un po’ prima del solito per andare a portare dei fiori a Camilo. Un rituale ormai privo delle emozioni dei primi anni, quando coloro che raggiungevano le coste per rendergli omaggio lo facevano con le lacrime agli occhi e senza aver bisogno di essere convocati dalla direzione di un centro scolastico o di lavoro.
La morte ha reso eterna ai nostri occhi la sua immagine lieta e popolare. Se c’è qualcosa al di là e ci sta guardando da quel luogo, deve sentirsi felice di essere scomparso in tempo. La morte lo ha salvato dall’ignominia, dalla probabile tentazione della corruzione e dall’umiliazione di essere trattato come un traditore o come un complice.


Reinaldo Escobar
(da Desde aquí, in 14ymedio, 28 ottobre 2014)

Traduzione di Silvia Bertoli