da TELLUS folio
Mario Vargas Llosa con Yoany Sánchez al VII Foro Atlantico
(Madrid, 08/07/2014)
11 Luglio 2014
Ricordate la visione di Mario Vargas Llosa, risalente già
alla metà del 1999? Il suo articolo allora pubblicato da El País (Spagna), “Il
suicidio di una nazione”, provocò un cortocircuito, un altro, in cui
l’accademia latinoamericana e, soprattutto, quella nordamericana, fecero
sfoggio della loro migliore demagogia castrista per scagliarsi contro l’oggi
premio Nobel per la
Letteratura.
Il minimo che venne detto allora a Vargas Llosa fu
“reazionario borghese”, per essersi presumibilmente messo contro la
democraticissima volontà del popolo venezuelano. Poco importava che questo, in
quanto tale, fosse ormai sul punto di scomparire per trasformarsi in quella
categoria di guerra che è l’essere “bolivariano”, una parola uscita
dall’oltretomba e una violenza totalitaria che aspirava a essere transtorica e
sovranazionale e durare mille anni, come ogni Reich che si rispetti (ricordo
ancora una rivistuola che circolava sull’isola per i soli membri del Partito
Comunista, e che si batteva sfacciatamente in favore della fusione binazionale
tra Cuba e Venezuela).
Hugo Chávez a quel tempo era più grande di Dio (secondo gli
atei delle università libere del mondo), malgrado il fatto di essere stato un
golpista con crimini al suo attivo, e senza aver mai dimostrato alcun
pentimento per nulla. Lo si tacciava favorevolmente di essere il nuovo messia
redentore. Si reclamizzavano come “carismatiche” le sue buffonate e il suo
abuso di potere, le sue mastodontiche ingerenze nello spazio pubblico: cantore,
poeta, comico, chiosatore, padre, accusatore, perdonatore, tutto tranne che
semplice presidente. Si ridussero a zero i valori della democrazia venezuelana e
si esaltò la miseria del paese. Anche all’estero si iniziò a rigettare la
radicalizzazione tra venezuelani e a reclamare il vortice virtuoso di una
rivoluzione. Volevano un prima e un dopo, un nuovo 1959 nel 1999, mentre Chávez
si prendeva villanamente gioco del suo popolo in tutti i media di massa,
dicendo loro che Cuba era una dittatura e che la proprietà privata era sacra e,
soprattutto, che lui avrebbe lasciato il potere, quando infine nemmeno il
cancro fu in grado di portarglielo via, e lui morì irresponsabilmente in
carica, mentendo a proposito delle sue metastasi e lasciando in eredità un
bullismo dittatoriale di risoluzione poco meno che impossibile.
Nel 1999 Vargas Llosa mandò all’aria la catarsi popolana di
noi tutti, come qualsiasi intellettuale mordace il cui dovere è non essere mai
compiacente: «La comunità internazionale se ne sbatte che ci sia o no
democrazia in Venezuela, di modo che questa non muoverà un dito per frenare il
sistematico disfacimento della società civile e delle pratiche basilari della
vita democratica portato a termine dall’ex golpista, con l’entusiastica e cieca
collaborazione di tanti incauti venezuelani. Una sinistra nuvola nera è caduta
sulla terra da cui gli eserciti bolivariani sono partiti a lottare per la
libertà dell’America, e temo che tarderà a dissiparsi».
Sembra che sia stato scritto questa mattina e non in un
agosto di ormai 15 anni fa.
«Che un numero così elevato di venezuelani appoggi i deliri
populisti e autocratici di quel ridicolo personaggio che è il tenente colonnello
Hugo Chávez non fa di lui un democratico; dimostra soltanto i limiti estremi di
disperazione, di frustrazione e di incultura civica della società venezuelana».
Allora, il peruviano scomodo, insopportabile, non
manipolabile fu definito in qualunque modo: velleitario, autore di sfuriate,
deboluccio nel momento dell’azione, prigioniero delle sue stesse frottole, uomo
incapace di apprezzamenti e liberale più letterario che letterale, presidente
frustrato e supplichevole dei poteri economici internazionali (specie degli
Stati Uniti) e, in ultima istanza, uno scriteriato con sintomi di ignoranza.
È passato il tempo, ma non il castrismo. La comunità
internazionale difende ancora a spada tratta il regime dell’Avana, che è
l’essenza maligna del regime di Caracas (entrambi a fronteggiare lo stesso
imperialismo di sempre, che vuole distruggere la sovranità delle nostre nazioni
vittime del capitalismo).
L’intero continente sembra ancora oggi muoversi contro quel
pezzo di ghiaccio di Mario Vargas Llosa ne El País. I morti a Cuba e in
Venezuela ammontano a migliaia dall’inizio del socialismo, ma si tratta di
cadaveri che in America Latina non hanno prestigio intellettuale: non contano
nelle conferenze degli accademici, né nelle statistiche dell’ONU e dell’OEA (Organizzazione
degli Stati Americani, ndt). Noi cittadini liberi siamo soli. Ci hanno lasciati
soli. Come Vargas Llosa. Malgrado, o proprio per, il suo Premio Nobel così
tardivo.
Ci troviamo tra la dittatura e la patria. Ed è già molto
difficile distinguere quale opzione sia la peggiore. Per questo ce ne andiamo,
è un altro modo di morire. Ci allontaniamo per sempre perché nessuno crede a
questi lugubri teatri di operazioni con cui le sicurezze dello Stato (o sarà
una sola sicurezza?) continuano a governare la nostra regione, creando
addirittura false dissidenze e opposizioni “democratiche” per non smettere di
abbindolarci e farci perdere tempo. E la vita.
Quando diciamo “basta barbarie!” a stento stiamo dicendo
“addio”.
Addio, dittatura. Addio, patria.
Orlando Luis Pardo Lazo
(da El Nacional, 8 luglio 2014)
Traduzione di Silvia Bertoli