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lunedì 18 novembre 2013

I figli illegittimi della rivoluzione


A CUBA STANNO PROSPERANDO
I FIGLI ILLEGITTIMI DELLA REVOLUCION

MIMMO CANDITO




Andrés si dice “abbastanza soddisfatto”. Aveva cominciato qualche anno fa con una vecchia poltrona e uno specchio, ora ha due specchi e due poltrone (una è anche quasi nuova). Andrés taglia capelli e rade barbe in una strada affollata di Centro Habana, raddoppiare in due anni le dotazioni della “peluqerìa” non è un risultato da poco, in un'isola dove il tempo pare spesso ingessarsi, imprigionato dentro rigidità che la Revoluciòn esige a difesa della propria sopravvivenza.
Ma Andrés lo sa bene, che Cuba non è più quella che era, anche se l'icona immortale del “Che” vigila ancora sulla grande piazza e si chiama sempre Castro quello che dirige l'orchestra della storia nazionale. I giorni passano lenti, all'Avana, il sole rosso e la pioggia larga dettano a stento un calendario che pare anch'esso imposto dal regime, e allora arrangiarsi resta comunque la migliore arte nazionale, quella nella quale fantasia talento e pigra spregiudicatezza forgiano comunque una soluzione possibile. “Resolver” è il verbo che si coniuga come un imperativo quotidiano, e lo si incontra a ogni angolo di strada, indifferente alla cappa calda e umida delle grandi nubi che traversano il cielo del Caribe. 
Sono incontri che fino a qualche anno manco te li sognavi, che guai a pensare di rompere il monopolio dell'economia tenuto stretto dentro le mani forti del regime. Finivi diritto in galera, e perdevi il futuro. Poi arrivò la rivoluzione della Rivoluzione, che naturalmente aveva un altro nome ma quello, comunque, voleva dire: che ora si cambiava, e che niente era più come prima anche se tutto restava com'era sempre stato. Cominciò nel 2008 però ebbe una sua formalizzazione 2 anni fa, e come nella Cina di Deng (ma è lo stesso in questa di Xi Jinping) anche all'Avana è stato il rituale liturgico del congresso del Partito comunista ad aprire il grande portone del cambiamento. Il corpaccione dello Stato che tutto fa e tutto controlla si sfaldava sotto le parole nuove del fratello di Fidel, e un orizzonte possibile si fece vedere al di là delle caute ombreggiature ufficiali. In quell'orizzonte, un milione di lavoratori pubblici veniva spedito a casa, licenziato di brutto dalle sue eterne sicurezze, e in cambio gli veniva imposto d'imparare a nuotare. O nuotare o affogare. 
E nuotare voleva dire mettersi in proprio, inventarsi un mestiere e provare a campare senza la sicurezza del salario a fine mese. Sono i “cuentapropistas”, i nuovi figli illegittimi della vecchia rivoluzione imbolsita. Carmelo Mesa-Largo, uno dei più attenti economisti che da Miami seguono la storia della Cuba castrista, traccia otto cicli che si alternano in questa storia ch'è lunga ormai mezzo secolo, quattro cicli li chiama “idealisti” e quattro “pragmatici”, una sorta di pendolo che si sposta e dondola seguendo una volta le pressioni della vecchia guardia conservatrice e una volta la necessità di aprire la cassaforte del paese alle esigenze d'una economia in evidente asfissia di capitali. Ora siamo nell'ultimo ciclo “pragmatico”, quello dove la Revoluciòn mette un po' da parte le sue bandiere ideologiche e lascia spazio al mercato, “ma uno spazio mai così ampio come questa volta”, dice il professore, che ha appena scritto un libro nel quale Raùl non è più “il fratello di” ma si è meritato ora un titolo tutto suo, Raùl e basta.
Andrès però, al telefono da laggiù, non ama molto parlare di politica e di strategie; diciamo per lui che i fatti, a raccontarli, sono meno compromettenti delle idee, e dei giudizi. I gattopardi dell'Avana hanno conservato intatto il loro strumentario repressivo, “adelante” sì, d'accordo, ma “con juicio”, con tanto juicio; e poi la Revoluciòn è comunque un mito che resta tuttora ben piantato nel cuore dell'isola, come una identità comune, condivisa con un sentimento profondo e la cui crisi, al massimo, viene imputata al tradimento d'una Nomenclatura sclerotizzata, che difende la propria continuità più che lo spirito di un antico progetto. E sarebbe proprio l'ora di finirla lì. Ma il tempo di Cuba è pigro, a cambiar pelle ci si mette sempre del tempo, e le cose si consumano lentamente nella vita quotidiana dell'isola.
E allora, Andrès preferisce raccontare di suo zio Julio, che ora fa anche lui il cuentapropista ed è uno dei tanti ex servitori dello Stato che oggi se ne stanno piazzati agli angoli delle strade a fare il nuovo mestiere d'ambulante; e non solo in centro, anche se il tranquillo quartiere del Vedado è quello che gli offre i migliori guadagni. Ha un carrettino, sul quale espone frutta e generi alimentari e ci campa su. La licenza di vendita, allo zio, è costata soltanto 50 pesos - che non è una gran somma, dice Andrés - anche se lo stipendio che, prima, lo zio prendeva dallo Stato era poco meno di 500 pesos. Julio era nei quadri del Ministero dello zucchero, che è stato uno dei più flagellati dalla “actualizaciòn del modelo” (nome ufficiale delle riforme che denudano il gigantesco impianto centralizzato delle politiche governative), e ha dovuto mollare la sua solida poltrona e mettersi in strada, “con la zia che piangeva che chissà come ce la saremmo cavata”.
In realtà, la “actualizaciòn” prevedeva freddamente che a essere espulso dalla nicchia confortante del lavoro statale fosse, entro il 2015, un milione di pubblici dipendenti, e che nel corso del tempo l'intera macchina pubblica si sarebbe poi dovuta smagrire addirittura del 33 per cento; sogni caraibici: oggi i numeri dicono spietati che l'esodo si è arrestato su quei primi 400mila che hanno accompagnato in strada il vecchio tìo Julio, e pare proprio che non si riesca ad andare oltre. Anche i gattopardi sonnecchiano, a Cuba.
Quando Raùl decise ch'era tempo di cambiare per non finire sepolti sotto le macerie d'una rivoluzione dove la “spinta propulsiva”s'era esaurita ormai da tempo, il piano delle riforme elencava ben 178 possibili licenze di lavoro privatizzato; e c'era di tutto, dall'antennista al taxista, dal venditore ambulante di prodotti agricoli all'affittacamere, al gelataio, al venditore di Cd, all'operatore di apparecchiature per l'intrattenimento pubblico. Una rivoluzione diffusa, insomma, dove l'inventiva ch'è la dote maggiore dei cubani potesse liberare tutte le proprie irriverenti potenzialità. E per molti non è andata affatto male: Andrès dice che “el tìo” riesce ad acchiappare fino a 130 pesos al giorno, con un bilancio annuale non lontano dai 40.000 pesos, ch'è un gruzzolo ben più sostanzioso dei 6.400 pesos che prima gli passavo lo Stato. “E la zia ora è contenta, e non si preoccupa più”.
Andrès compra la sua merce dai contadini (c'è stata una larga redistribuzione di terre incolte ai “campesinos”) o anche dai negozi statali, e naturalmente deve fare un ricarico che gli consenta un buon margine di guadagno: i fagioli neri (che a Cuba sono come per noi gli spaghetti) li vende a un terzo in più del prezzo ufficiale, e così anche la carne di maiale, che invece dei 56 pesos al chilo viene in vendita a 70. Naturalmente, deve pagarci su le tasse: sono poco più di 2.500 pesos l'anno, “e non va male”. Solo che la corruzione sta nelle vene del regime, e per poter lavorare lo zio Julio deve pagare “ogni tanto” una multa di 180 pesos agli ispettori della polizia: sono multe, diciamo, discrezionali, che non sempre finiscono davvero nelle casse dello Stato. Ma la burocrazia ha i suoi costi, e comunque anche gli ispettori della polizia devono poter campare.
Sta nascendo una nuova classe media, abborracciata, legata spesso ai guadagni spropositati del settore turistico, sempre in bilico sulle contraddizioni d'un sistema monetario duale (1 peso vale 1 dollaro, ma poi nei fatti ce ne vogliono 25), costretta a navigare dentro le timidezze pavide d'un regime che vorrebbe cambiare senza però rimetterci il potere. Le prospettive sono buone ma incerte, come i venti veloci del Caribe che spostano le grandi nuvole ancorate ai cieli dell'isola d'un comunismo che non ce la fa più.

Ps. Anche senza cognome, Andrés e Julio sono nomi finti. Troppi guai potrebbero piombargli addosso, se fossero identità riconoscibili dalla polizia cubana.

giovedì 19 settembre 2013

Gli autobus abruzzesi in giro per Cuba

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Sono felice di pubblicare finalmente  questo post con un briciolo di orgoglio essendo abruzzese e a due passi dalla sede di Socialcuba.
Questa notizia era attesa da un’anno, da quando l’ARPA, l'agezia pubblica di trasporti mise in vendita alla simbolica cifra di 1 euro diversi autobus in disuso.
4 di questi furono acquistati dall’associazione e resi efficienti per poi essere donati a Cuba, in particolare alla scuola di Pinar del Rio ma anche in funzione di trasporto pubblico.
L’associazione ha progammi già eseguiti e in progetto di interscambio culturale e solidale con questa provincia ed in particolare con questa scuola di arte.
Qui sotto riposto un articolo pubblicato da un quotidiano locale ed una piccola clip del documentario realizzato alla consegna lo potete vedere qui: http://video.gelocal.it/ilcentro/locale/gli-autobus-abruzzesi-in-giro-per-cuba/17736
Gli autobus hanno il nome stampato ai lati di quattro giovani dipendenti dell'ARPA prematuramente scomparsi
NIKI

Dal Centro di domenica 15.09.13


Nella sede della Cgil a Teramo, alla presenza dell'ambasciatrice cubana in Italia Milagros Carina Soto Aguero, si è tenuta la proiezione del video “I nostri autobus in giro per Cuba”. Il reportage, realizzato a L'Avana, documenta l'avvenuta consegna di quattro autobus Arpa donati all'Università di arte plastica di Pinar del Rio. Il progetto di solidarietà ha visto collaborare insieme l'associazione Socialcuba, la Filt-Cgil e l'azienda di trasporti regionale. Ciascun mezzo è stato intitolato alla memoria di quattro lavoratori Arpa scomparsi prematuramente, Marco Curini, Gianfranco Cichetti, Pietro Cortellini e Sergio Pecorale. L'ambasciatrice è stata poi ricevuta a Palazzo di città dove ha incontrato il vicesindaco di Teramo Alfonso Di Sabatino e i rappresentanti dell'Unione industriale e dell'Ance (a cura di Fabio Iuliano)

Yoani Sánchez. Le mie parole durante il Forum 2000





17 Settembre 2013
  
Buona notte,
Sono passati ormai oltre dieci anni da quando mi capitò tra le mani per la prima volta il libro di Václav Havel Il potere dei senza potere. Era foderato con una pagina del periodico ufficiale del mio paese, il quotidiano del Partito Comunista di Cuba. Foderare i libri era uno dei tanti sistemi che usavamo per nascondere alla vista di informatori e polizia politica i testi scomodi e proibiti dal governo. In questo modo siamo riusciti a leggere clandestinamente tutto quel che è successo dopo dopo la caduta del muro di Berlino, la fine dell'Unione Sovietica, la trasformazione ceca e tutti gli altri eventi che hanno interessato l'Europa dell'Est. Siamo venuti a conoscenza di tutti quei cambiamenti, alcuni più traumatici, altri più fortunati, e in molti abbiamo sognato che il cambiamento arrivasse presto anche nella nostra Isola del Caribe, oppressa da oltre cinquant'anni di regime totalitario. Ma il cambiamento più che sperarlo devi costruirlo. I processi di cambiamento non arrivano da soli, i cittadini devono promuoverli.
Oggi mi trovo qui, proprio nella città dove nacque Václav Havel, un uomo che riassume come pochi lo spirito del cambiamento. Mi trovo anche davanti a molte persone che hanno promosso, dato impulso e personificato il desiderio di cambiamento delle loro rispettive società. Perché la ricerca di orizzonti caratterizzati da maggior libertà, è una componente essenziale della natura umana. Per questo motivo diventano così incomprensibili e innaturali quei regimi che tentato di governare in eterno sulle proprie popolazioni, immobilizzandole, togliendo ogni desiderio di sognare un futuro migliore.
Ai tempi di Václav Havel, Lech Walesa e tanti atri dissidenti dei regimi comunisti, furono messi in campo validi strumenti di lotta pacifica e sindacale, persino la creazione artistica si schierò al servizio del cambiamento. Adesso è venuta in nostro aiuto anche la tecnologia. Ogni volta che utilizzo un telefono mobile per denunciare un arresto o racconto nel mio blog la difficile situazione di tante famiglie cubane, penso a come sarebbero stati utili questi attrezzi fatti di schermi e tastiere per gli attivisti dei decenni precedenti. Le loro voci e i loro progetti sarebbero arrivati molto più lontano, se avessero potuto contare sulle reti sociali e su tutto il cyberspazio che oggi si apre davanti ai nostri occhi. Il WEB 2.0 ha rappresentato, senza dubbio, una spinta per quello spirito di cambiamento che tutti noi abbiamo dentro.
Oggi, per la prima volta, è presente al Forum 2000 una piccola delegazione di attivisti cubani. Dopo decenni di reclusione insulare durante i quali il regime del nostro paese impediva a molti dissidenti, giornalisti indipendenti e blogger alternativi di viaggiare all'estero, abbiamo ottenuto una piccola vittoria: ci è stato aperto il lucchetto delle frontiere nazionali. È una vittoria limitata, incompleta, perché ancora ne mancano molte altre. La libertà di associazione, il rispetto della libera opinione, la capacità di eleggere i nostri rappresentanti, la fine degli odiosi meeting di ripudio che ancora persistono nelle strade cubane contro coloro che pensano in maniera diversa rispetto all'ideologia dominante. Malgrado tutto, siamo in molti a sentire che Cuba sta cambiando. Un cambiamento che si sta verificando nel modo più irreversibile e fondamentale: dall'interno dell'individuo, nella coscienza di un popolo.
Molti di voi avranno influito su quel cambiamento. Molti di voi che siete arrivati prima alla libertà e vi siete resi conto che non è la fine del percorso, ma che la libertà porta nuovi problemi, nuove responsabilità, nuove sfide. Voi che nei paesi di appartenenza avete mantenuto vivo lo spirito del cambiamento, persino mettendo in pericolo i vostri nomi e le vostre vite. Come lo spirito del cambiamento contenuto in quel libro di Václav Havel, foderato – per mascherarlo – con le pagine del periodico ufficiale più immobilista e reazionario che si possa immaginare. Come quel libro, il cambiamento si può proibire, censurare, si può definire quasi una brutta parola, si può ritardare e demonizzare... ma alla fine arriverà.

Praga, 16 settembre 2013
Yoani Sánchez

Traduzione di Gordiano Lupi

CUBA-STATI UNITI: RIPRENDONO I COLLOQUI SUL SERVIZIO POSTALE DIRETTO




    di  Luca Pistone.  Scritto  il  17 settembre 2013  alle  7:00.

Stati Uniti e Cuba hanno iniziato ieri all’Avana il secondo round di colloqui su un eventuale ripristino del servizio di posta diretto tra i due paesi dopo mezzo secolo di interruzione.cubaposta

“Si lavorerà sui dettagli di un progetto pilota per offrire un servizio postale diretto”, recita una nota del dipartimento di stato Usa.
Le parti hanno concluso in giugno un primo incontro, definendolo “positivo e costruttivo”. La proposta, riportano i media statunitensi, è relativa all’invio di lettere, e non di pacchi o posta espressa.
La direttrice esecutiva dei servizi internazionali del servizio postale degli Stati Uniti, Lea Emerson, è alla guida della delegazione del suo paese ai colloqui, mentre i cubani sono rappresentati da José Cabañas, capo della sezione di Interessi a Washington,
Il servizio di posta diretta tra Cuba e Stati Uniti è stato interrotto nel 1963. Ciononostante, lettere e altra corrispondenza sono filtrate in entrambi i paesi separati da circa 145 chilometri attraverso altre nazioni.
Le relazioni tra i due paesi sono congelate dal 1959, anno in cui ha avuto luogo la rivoluzione cubana guidata dall’ex presidente Fidel Castro. Washington ha mantenuto contro l’Avana severe sanzioni economiche e commerciali per oltre mezzo secolo.
Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha ripreso i colloqui sulla migrazione e il servizio postale con Cuba nel 2009, entrambi sospesi dall’amministrazione George W. Bush nel 2004.
Negoziazioni bruscamente troncate in seguito all’arresto nell’isola caraibica del contractor statunitense Alan Gross, condannato nel 2011 a 15 anni di carcere per il suo ruolo nella creazione di una rete illegale di internet che sfuggiva al controllo dello stato cubano.
Le autorità cubane hanno accennato ad un possibile scambio di Gross con quattro ex agenti dei servizi segreti cubani detenuti negli Stati uniti da 15 anni con l’accusa di spionaggio.

In agosto Cuba ha permesso per la prima volta la visita di un medico statunitense a Gross.

mercoledì 18 settembre 2013

Cuba, vescovi a Raul Castro: è momento riforma politica

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In lettera aperta, 13 prelati cubani chiedono società pluralista


‘Cuba è chiamata ad essere una società pluralista, essendo la somma di molte realtà cubane’


Riforme economiche sì, ma e' necessario anche un cambiamento "nell'ordine politico": e' il chiaro messaggio che la Chiesa cattolica cubana ha inviato al governo del presidente Raul Castro, attraverso una lettera aperta - con un titolo evocativo preso dall'epistola ai Romani: "la speranza non delude" - pubblicata oggi nel sito web della conferenza episcopale dell'isola (Cec). Nel testo, i tredici vescovi cubani sostengono che e' ormai "imprescindibile" che sia messa in atto "una attualizzazione, un aggiornamento della legislazione nazionale nell'ordine politico", cosi' come "sta gia' avvenendo nell'aspetto economico".
"Cuba e' chiamata ad essere una societa' pluralista, essendo la somma di molte realta' cubane, il che vuol dire in altre parole che Cuba e' la nazione di tutti i cubani, con le loro differenze e le loro aspirazione, anche se non sempre e' stato cosi'", si legge nella lettera. I vescovi riconoscono che negli ultimi anni "si e' aperta una tappa della nostra storia che comincia a mostrare le possibilita' che si aprono quando si applicano nel paese un insieme di misure che incidono sull'economico, il sociale e fino a un certo punto il politico" e sono "il riflesso chiaro, anche se per ora incompleto, di richieste da tempo presenti nella popolazione". Fra queste riforme i vescovi ricordano la liberalizzazione del settore agricolo, "la liberazione di coloro che erano stati imprigionati per le loro idee politiche" e "l'eliminazione di misure restrittive che attentavano contro la dignita' dei cittadini", come la proibizione di usare strutture alberghiere, costituire una piccola azienda, comprare e vendere proprieta' o viaggiare all'estero. Ora pero', incalzano, e' giunto il momento della riforma politica a Cuba, dove "lo Stato partecipativo deve sostituire definitivamente quello paternalista" e "non si deve temere lo sviluppo di una autonomia sociale forte e responsabile, rafforzata dalla base e in accordo con le norme di una convivenza civile, in grado di sviluppare un lavoro fraterno". I vescovi ammettono che esistono ancora forti resistenze a ogni cambio politico nell'isola, il che e' dovuto anche "a una mentalita', un modo di pensare che si basa su fattori ideologici che erano presenti nell'origine e lo sviluppo" del regime castrista "e si sono mantenuti nel tempo senza tenere conto che la nostra realta' e' cambiata". Fra i settori nei quali la Chiesa afferma sia necessario un cambiamento c'e' anche il rapporto con gli Stati Uniti, andando verso "una politica di inclusione, in base al rispetto delle differenze, che permetta di attenuare le tensioni e le sofferenze che vivono numerose persone e famiglie".


venerdì 9 agosto 2013

Mamma, voglio fare il dissidente

blog ponte per cubareale




Alejandro Torreguitart Ruiz.


  
Mamma è preoccupata. Dice che non scrivo più. Questa è bella, proprio lei che stava sempre a dire Alejandro non fai un cazzo dalla mattina alla sera, perché non ti trovi un lavoro serio invece di scrivere, ora mi rimprovera perché non scrivo.
– Mamma, ti senti bene?, – le chiedo.
– Mai stata meglio, – risponde. E intanto separa i fagioli buoni dai cattivi. Solito gesto che scandisce il ritmo del quotidiano in questo paese dove non succede mai niente e si va avanti così, tanto siamo cubani, s’inventa.
– Non scrivo a richiesta, mamma. Scrivo quel che vedo. Ho parlato di froci, puttane, gente che scappa, mogli che uccidono mariti. Ho messo in burletta Lovecraft e Dickens. Non ho più idee, mamma.
– Fattela venire, allora. Chiama il tuo amico camajan. Digli che ti pubblichi un libro, una raccolta di racconti, qualcosa. I soldi fanno comodo, Alejandro. Abbiamo la casa da restaurare…
Ora mi spiego la foga letteraria di mia madre. Non ha mai letto un libro in vita sua, al massimo Juventud Rebelde, le pagine dei fumetti, riviste tipo Palante e Bohemia, cose che non si trovano più. Figurati se legge quel che scrivo, e poi meglio così, ché con tutti i cazzi e i culi che ci metto dentro le prenderebbe male. Ma i soldi dei diritti le interessano, certo. Mai chiedersi da dove provengono. Basta che arrivino. E allora cara mamma, tu non lo sai, ma un modo ci sarebbe per fare un po’ di soldi senza fatica. Mi sa che non ti piace ma oggi come oggi rende bene fare il dissidente. Ricardo Alarcón deve essersi preso uno sturbo, ché da un anno a questa parte volano tutti in Europa e nordamerica, i cieli del mondo sono pieni zeppi di dissidenti cubani, le strade del nord brulicano di cubani coperti da enormi cappotti che parlano di politica, mangiano caldarroste e bevono vodka. E io che ho sempre avuto paura. Mi sa che sono proprio fesso. Pubblico libri in Italia, non mi faccio vedere, mia madre dice ti mettono in galera e buttano la chiave, mio padre aggiunge ragazzo fai attenzione. E io sto attento, tranquilli, ma qui non sta più attento nessuno, vanno in America i Porno Para Ricardo, persino Gorki, che a tempo perso manda affanculo Raúl Castro e dà del vecchio rimbambito a Fidel. Ma mica viaggiano e basta, mica affollano gli aeroporti per far dispetto al vecchio Alarcón, no, riscuotono pure un sacco di soldi, tra concerti, conferenze, lezioni universitarie e articoli sulla stampa di mezzo mondo. Scorreggia un dissidente? El País concede la prima pagina e una collaborazione da opinionista. Alejandro, fatti furbo, segui la tua strada. Altro che quattro spiccioli da un editore italiano per scrivere storie di froci e puttane, ché gli italiani quello leggono, pare. Dicono che la Sezione d’Interessi paghi bene, basta farsi coraggio, osare un pochino, aprire un blog, poi ci si mette in lista d’attesa. Magari trovo un agente letterario europeo, firmo qualche contratto, apro un conto in Svizzera o in Spagna, un posto vale l’altro, deposito i soldi e ogni tanto attingo per le piccole spese.
Non farò mai niente di tutto questo, lo so, ma è bello sognare…
– Mamma, ora come ora mi vengono solo poesie, – dico.
– Figlio mio, con la poesia non ha mai mangiato nessuno.
Ecco, mia madre non capisce un cazzo di letteratura, tra l’Indio Naborí e Lezama Lima preferisce il primo, pensa che Proust sia una malattia infettiva, una cosa tipo la proustite, nonostante tutto ha capito che con la poesia non si mangia. Mamma, si mangerebbe girando per il mondo a fare il santone, rischi zero, mica siamo il Kazakistan, non ci tocca nessuno. Mamma, voglio fare il dissidente, è il mestiere del futuro. Avrei tanta voglia di dirglielo, ma meglio di no, non reggerebbe il colpo. E poi mica ce la farei. Meglio inventarsi un’altra storia di puttane, guarda, come ha detto l’editore l’altro giorno, magari una trilogia, ché ora vanno di moda le trilogie. Quasi quasi scrivo La puttana dissidente, mi sa che diventa un best-seller, anche senza sfumature di grigio, ché qui le sfumature ci sono, e neanche poche, ma è meglio non dire di cosa...

Alejandro Torreguitart Ruiz

Traduzione di Gordiano Lupi

martedì 2 luglio 2013

Giovane svizzera investe poliziotto a Cuba. Inizia il suo incubo

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      Il presente post è purtroppo un'eventualità esistente nella legislazione cubana. Ogni persona colpevole e/o innocente che si trovasse di fronte ad un simile accaduto di gravità penale è obbligato a rimanere nell'isola a disposizione delle autorità per eventuale processo.       I tempi cubani sono i medesimi per la giustizia, quindi si può incorrere in   permanenza forzata anche per lungo periodo.

NIKI




 Zurighese bloccata da 128 giorni sull'isola: "Sono disperata, voglio tornare a casa"

ZURIGO- Vacanza non vuol dire per forza divertimento e relax. Almeno non per Sabrina (nome fittizio) che, a Cuba, ha visto la sua permanenza trasformarsi in un incubo. Questa giovane zurighese di 27 anni, infatti, è rimasta bloccata sull'isola per 128 giorni.
I fatti - Il 2 febbraio scorso la ragazza ha noleggiato, assieme ai suoi amici, un'auto per un giro per il Paese di tre settimane. Dopo soli cinque giorni di viaggio, però, Sabrina ha involontariamente fatto cadere un agente di polizia che stava guidando uno scooter. "Tutto è successo così in fretta. Non l'ho visto arrivare. Per fortuna non si è fatto male ", ha spiegato la ragazza sulle pagine del "Blick".
Dopo un controllo dei livelli dell'alcool nel sangue e un breve passaggio al primo posto di polizia, il gruppetto di ragazze ha potuto riprendere il loro viaggio. "Sono stata io a causare l'incidente. Questo è quello che ho detto agli agenti che hanno stilato il rapporto dell'incidente. Ho detto loro che mi dispiaceva", ha aggiunto Sabrina. Ma le scuse, evidentemente, non sono bastate. Finita la vacanza, giunte all'aeroporto de l'Avana, il 28 febbraio, pronte per tornare in Svizzera, le ragazze sono state fermate. "Un impiegato mi ha detto di aspettare", spiega la 27enne.
Poco dopo Sabrina scopre che l'agente investito aveva subito delle lesioni alla spina dorsale e aveva sporto denuncia contro di lei: "Ho cercato di pagargli 2.000 franchi a titolo di risarcimento, ma ha rifiutato!"
Da allora, la giovane di Dielsdorf (ZH) aspetta con ansia il suo processo: "Sono disperata e voglio tornare a casa. Presto finirò i soldi. La mia famiglia mi sostiene, ma comincia a diventare dura anche per loro".

ALLA RICERCA DELLA PILLOLA PERDUTA


 YOANI SANCHEZ,
Il pezzo di carta era stato lasciato sotto la porta, ma l’ha trovato solo l’altro giorno. La lista era scritta con uno stile rozzo, un’ortografia che scambiava “r” per “l” e alcune “b” per “v”. Ma è riuscito a comprendere il contenuto. Dieci pastiglie didiazepam costavano 10 pesos e lui doveva prenderne una al giorno, almeno per il prossimo mese. Non poteva fare a meno neppure del paracetamolo, quindi annotò un numero due accanto al nome del medicamento. Questa volta non gli serviva alcol, mentre aveva bisogno della Nistatina in crema. Suo figlio, inquieto per natura, necessitava di ansiolitici, quindi annotò un quantitativo sufficiente per diverse settimane. Era un commerciante fidato, non l’aveva mai truffato, tutte le medicine erano di buona qualità, alcune d’importazione. In alcuni casi aveva comprato da lui confezioni sigillate che recavano la dicitura “proibita la vendita, solo distribuzione gratuita”.
Il commercio di medicinali e altro materiale ospedaliero è in continua crescita. Uno stetoscopio sul mercato illegale costa il salario di due giornate lavorative; per comprare uno spray di Salbutamol per asmatici serve il guadagno di un intero giorno di lavoro. Le farmacie statali sono carenti di prodotti, ma i pazienti e i loro familiari non restano con le braccia incrociate. Un rotolo di cerotto costa circa 10 pesos in moneta nazionale, lo stesso prezzo di un termometro di vetro. Si deve scegliere tra infrangere la legge o continuare a misurare la febbre con la mano sulla fronte. Il pericolo, tuttavia, non consiste solo nella violazione di regole stabilite. In realtà molti clienti si medicano da soli o consumano pillole che nessun dottore ha prescritto. Il venditore clandestino non pretende che venga esibita una ricetta e non è interessato a sapere come il cliente userà pastiglie o sciroppi.
Nonostante le numerose operazioni di polizia contro il contrabbando di medicinali, il fenomeno sembra aumentare invece che ridursi. Nella zona avanera di Puentes Grandes una vecchia cartiera trasformata in deposito di farmaci, è l’emblema delle strategie e delle sconfitte governative sulla prevenzione del commercio illecito. La polizia è incapace di risolvere la situazione, perché la sottrazione di medicinali viene compiuta da magazzinieri, tecnici di farmacia, infermieri, dottori e persino direttori di ospedali. La domanda maggiore riguarda analgesici, antinfiammatori, antidepressivi, siringhe, cotone e creme contro i dolori. Il mercato illegale dei farmaci comporta anche adulterazione e contraffazione. Alcune pillole bianche, pagate trenta volte il loro valore ufficiale, possono risolvere un problema ma anche provocarne altri ben più gravi.


Traduzione di Gordiano Lupi

IL MISTERO DI MANGIARE A CUBA


 WENDY GUERRA
Mi preoccupa molto come e con quali mezzi i cubani ‘rimedino’ ogni giorno alla questione del cibo. Non è un segreto per nessuno che quello che la tessera di razionamento fornisce non è sufficiente a sfamarci, a darci nutrimento, a far sì che la nostra dieta sia bilanciata. Si sa, sono davvero pochi i prodotti che vengono distribuiti attraverso questo canale. Con gli stipendi di base è molto difficile comprare pesos convertibili (CUC), e senza questa moneta non è possibile accedere ai supermercati per acquistare gli alimenti necessari al fabbisogno giornaliero. Come si fa allora?
I mercatini rionali offrono diverse varietà di frutta e verdura e carne di maiale o montone. Ma tutti questi prodotti sono acquistabili con l’equivalente del peso cubano in CUC (24 pesos cubani per 1 CUC). Anche per il pane, il latte e il caffè è necessaria questa valuta.

Come si può fare per mangiare in modo equilibrato qui?
Entro al Supermercato Palco. È possibile che questi siano i prezzi giusti? Quattro cetrioli, di cui uno rotto: 1.70 CUC. Per fortuna nei mercatini ce ne sono di più economici.
Chi li stabilisce questi prezzi? Sarà vero che nei vari mercati o negozi dell’isola si applicano delle ‘maggiorazioni’ affinché gli stessi lavoratori ci possano ricavare qualcosa? Una cassiera guadagna più o meno 220 pesos cubani. Con quei soldi non potrà comprare gli stessi prodotti che vende durante la sua giornata di lavoro.
Passiamo al formaggio: un piccolo pezzetto di formaggio erborinato 21 CUC.
Tutto questo ha un perché. Da quando siamo bambini ci spiegano che il blocco, o embargo americano, provoca molti danni alle importazioni e accedere a determinati alimenti che, in circostanze diverse, sarebbe meno complicato coltivare, conservare o importare da un paese vicino ci costa il triplo.
Prendo in mano un dolcificante. Lo leggo: arriva dagli Stati Uniti. Com’è possibile? Come fa questo prodotto ad arrivare a Cuba nonostante il blocco?
Il popolo cubano mangia ogni giorno facendo le acrobazie tra lo stipendio e quello che riesce a ‘rimediare’ in modo illecito, tra le spedizioni famigliari e le collaborazioni con l’estero.
Oggi mangiare a Cuba racchiude una forte carica simbolica. A questa tavola si nascondono i segreti di un paese sommerso da diverse economie, che finiscono per sfidare il nostro antico precetto di lavorare per portare il pane in tavola.
L’arte di mangiare a Cuba è oggi un vero mistero.


traduzione di Silvia Bertoli.

SENZA PESI SULLA COSCIENZA


di Yoani Sánchez
da El Pais – 25 giugno 2013

A lei si è rotta un’unghia per l’agitazione. Domani dovrà tornare dalla manicure per farsi sistemare lo smalto e la bandierina inglese in miniatura che si era fatta dipingere. A lui in mezzo alla confusione si è scucita la camicetta, inoltre ha il corpo madido di sudore, come se gli avessero lanciato contro un secchio d’acqua. Non è una scena erotica, non si tratta di amore, ma di illegalità. Una coppia, sotto il sole di giugno, trasporta sabbia per finire di ristrutturare una cucina. Hanno rubato l’occorrente da un teatro in corso di restauro. Hanno girato intorno fino a quando il custode non si è addormentato dopo aver pranzato. Allora hanno riempito due borse, sufficienti per edificare un piccolo pianerottolo. Hanno costruito così la loro casetta, prendendo un po’ alla volta ciò che serviva, da un luogo o da un altro, sperando che nessuno si accorgesse che stavano sottraendo mattoni e mattonelle per il pavimento. La sua piccola abitazione è stata il risultato di un’attività predatoria, della tipica rapacità che tanti cubani manifestano nei confronti delle risorse statali. Prendere tutto quel che si può, portare via a quel potente padrone qualsiasi cosa, pensano… e subito passano a vie di fatto.
Tra i motivi per cui alcuni alcune costruzioni impiegano così tanto tempo per essere costruite o riparate non ci sono solo la negligenza e la mancanza d’efficienza. Il furto di cemento, acciaio e altri materiali per costruzione rallentano la realizzazione di molte opere pubbliche. In alcuni casi eclatanti, la quantità di risorse rubate ha moltiplicato per tre i preventivi dei costi di costruzione o restauro. I lavandini spariscono non appena vengono scaricati dal camion mentre le confezioni di vernice vengono riempite d’acqua per rivendere parte del prodotto sul mercato clandestino. Si narra persino di un hotel dove sono stati trafugati 36 impianti di aria condizionata, alcuni giorni prima dell’inaugurazione. Di fronte a così tanti furti, ogni oggetto o risorsa va sorvegliata con attenzione. Non solo. E’ necessario anche controllare chi è deputato all’attività di vigilanza.  
Molti occhi attendono solo un piccolo errore. Una mattina senza controlli comporterà la sottrazione di un’ingente quantità di calcina. Durante la vacanze estive, una scuola senza custode potrà perdere alcune finestre e diverse tazze del bagno. Le lampade scompaiono, gli interruttori elettrici vengono trafugati, il saccheggio riguarda le maniglie delle porte, i corrimano delle scale, le tubazioni e persino le tegole del tetto. Senza pesi sulla coscienza, né complessi di colpa da parte di chi compie i misfatti. Proprio come il povero nullatenente che ruba al padrone un pezzo della sua succulenta merenda quando quest’ultimo guarda fuori dalla finestra. Quasi tutti coloro che sottraggono materiali per costruzione di opere statali non provano alcun rimorso per ciò che fanno. Definiscono tale attività “recuperare”, “inventare”, lottare”, “sopravvivere”. Quando si fanno il bagno in una doccia costruita con piastrelle rubate, pensano sotto l’acqua che scorre: “quel che ti danno prendilo e quel che non ti danno… pure.”


Traduzione di Gordiano Lupi

venerdì 28 giugno 2013

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L’umorismo come esorcismo



YOANI SANCHEZ
Ero appoggiata al finestrino e facevo attenzione. Il vetro mostrava una vistosa incrinatura e a ogni scossone sembrava che dovesse cadere a pezzi. Per alcuni minuti, lungo il viale percorso dal taxi collettivo, mi ero imposta un esercizio di aritmetica: contare per strada tutte le persone che sorridevano. Nel primo tratto, tra avenida Rancho Boyeros e il cinema Maravillas, non ho visto nessuno. Una signora mostrava i denti non per allegria ma per colpa del sole, che le disegnava una smorfia composta da occhi socchiusi e labbra aperte. Un adolescente in uniforme da liceale gridava all’indirizzo di un collega. Non ho potuto sentire a causa del rumore del motore, ma le sue parole non contenevano alcuna battuta umoristica. All’altezza di Piazza Cuatro Caminos una coppietta ferma a un crocevia si baciava con passione, ma neppure in questo caso si notavano atteggiamenti giocosi. Tutt’altro. Era un bacio carnivoro, vorace, rapace. Un bebè in carrozzina sembrava sul punto di sorridere… ma era soltanto uno sbadiglio. Arrivati al Parque de la Fraternidad avevo potuto contare solo tre risate, incluso quella di un poliziotto che si burlava del giovane che aveva ammanettato e fatto salire sulla camionetta.  

Ho fatto questo esperimento in diverse occasioni, per verificare se siamo davvero quel popolo sorridente di cui parlano tanti stereotipi. Nella maggior parte dei casi, il numero di coloro che esprimono un certo grado di allegria non ha superato le cinque persone in un tragitto che varia tra i 4 e i 10 chilometri. Certo, questo non prova niente, ma è vero che nelle circostanze quotidiane le risate non sono così abbondanti come vogliono farci credere. In ogni caso restiamo un popolo dotato di molto senso dell’umorismo. Ma l’ilarità è una scialuppa di salvataggio che ci riscatta dal naufragio della depressione più che una caratteristica del nostro carattere. Ridiamo per non piangere, per non picchiare, per non uccidere. Ridiamo per dimenticare, fuggire, tacere. Per questo, quando assistiamo a uno spettacolo comico capace di far vibrare tutte le corde dolorose del nostro umorismo, è come se si aprissero le valvole di scarico e tutta la calzada 10 de Octubre cominciasse a ridere, inclusi gli edifici, i lampioni e i semafori.  

Venerdì scorso è successo qualcosa di simile durante lo spettacolo “De doime son los cantantes” che l’attore Osvaldo Doimeadios ci ha regalato nella sala del Karl Marx. L’umorista ha reso omaggio al nostro miglior teatro vernacolare esibendosi in magistrali interpretazioni e monologhi. Le penurie economiche, la riforma migratoria, gli eccessivi controlli sul lavoro privato, gli episodi di scandalosa corruzione collegati al cavo di fibra ottica sono stati alcuni tra gli argomenti che hanno strappato il maggior numero di risate. Ridiamo dei nostri problemi e delle nostre miserie, ridiamo di noi stessi. Finita la distrazione, il pubblico si è accalcato nei caldi corridoi per guadagnare l’uscita. Fuori, la calle Primera era affollata nonostante fosse notte. Ho preso un autobus per tornare a casa e mi sono affacciata al finestrino… nessuno sorrideva. L’umorismo era rimasto nelle poltrone e sul palcoscenico, eravamo tornati alla sobria realtà.  

Gordiano Lupi  



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I legami tra le forze produttive



YOANI SANCHEZ
Lo stesso giorno in cui Marino Murillo è comparso in televisione per illustrare la potenziale prosperità del modello economico cubano, la segretaria del Partito Comunista di un municipio di Pinar del Río incontrava con urgenza diversi contadini. L’assemblea ha avuto luogo nella località di San Juan y Martínez e si è focalizzata sullo stato di emergenza agricola in cui versa il paese. Tra le altre cose, la funzionaria ha chiesto ai cooperativisti della zona - dediti soprattutto alla coltivazione di tabacco - di seminare più frumento e tuberi. “Il paese attraversa una situazione di crisi alimentare” ha detto, senza provocare particolare agitazione nell’uditorio, perché il cubano medio non ricorda situazione diversa da crisi, angoscia e collasso cronico. “Cominciate a seminare che dopo arriveranno le risorse…”, si è affrettata a dire di fronte a persone abituate ad ascoltare il canto delle sirene sotto forma di promesse incompiute.  

Rapidamente l’assemblea ha cambiato direzione e i convocati hanno cominciato a inserire in agenda altri argomenti. Sono piovute subito le lamentele. Un produttore di frutta ha spiegato tutti gli impedimenti per stipulare un contratto direttamente con l’azienda La Conchita e poter così commercializzare le sue guayaba e i suoi manghi. Adesso non può farlo, perché deve vendere la produzione all’impresa statale Acopio che a sua volta ha il compito di somministrarla alla fabbrica di conserve e marmellate. L’intermediario ufficiale esiste ancora e si prende il maggior guadagno, ha detto l’agricoltore. Inoltre, un rotolo di fil di ferro lungo 400 metri per recintare un campo a un’impresa agricola statale costa 80 pesos (3,30 USD); mentre il contadino membro di una cooperativa può arrivare a pagare per identica quantità dello stesso prodotto anche 600 pesos (25 USD). Un sacco di cemento - indispensabile per ampliare le strutture di un’azienda agricola - costa al massimo 20 pesos (0,83 USD) per una fattoria statale e 120 pesos (5 USD, prezzo al dettaglio, per il cooperativista.  

Quando i rapporti di produzione diventano una camicia di forza per lo sviluppo delle forze produttive vuol dire che è arrivato il momento di cambiarli. Questo recitava una conclusione marxista tra le più studiate sia al liceo che all’università. Per questo se confrontiamo le dichiarazioni di Marino Murillo con le testimonianze di diversi contadini e il disastro agricolo che ci circonda, dobbiamo solo concludere che l’attuale modello economico si comporta come un abbraccio mortale per lo sviluppo e la prosperità di Cuba. Non serve a molto che i funzionari ci dicano che tutto va bene, che tempi migliori e progresso sono dietro l’angolo. Se chi lavora i campi continua a essere bloccato da regole assurde, coloro che stabiliscono simili restrizioni devono togliersi di mezzo e lasciare il passo ad altri capaci di lavorare meglio.  


Traduzione di Gordiano Lupi  

mercoledì 19 giugno 2013

Tornare a Cuba

WENDY GUERRA, TORNARE A CUBA


«Ciao, sono all’aeroporto, sono arrivata ma mi stanno per pesare e forse aprire le valigie. Mi potete aspettare con calma per favore? Qui va per le lunghe e devo spegnere il cellulare.»
È l’attacco inequivocabile dei rientri a Cuba. Sembrava che tutto fosse cambiato, ad alcune persone nemmeno le pesano, invece no, questo mese, entrando all’Avana, è successo a tre dei miei colleghi.
Anche se arrivi entusiasta, con la voglia di creare, pazzo per la gioia di ritrovare Cuba, vieni subito disarmato nel ‘raccontami vita, morte e miracoli’ dell’aeroporto. È la dogana, il luogo in cui gli impiegati dimenticano di essere cubani come te, con le stesse mancanze, con il bisogno di importare i beni di prima necessità che a Cuba non si trovano. Queste persone eseguono degli ordini, ma con un atteggiamento distante, vuoto; sembrano stranieri intenti a domandarci perché portiamo quel che portiamo nel paese in cui siamo cresciuti insieme carichi di necessità oggettive.
Che cosa direbbe Rousseau il Doganiere che, essendo lui stesso un artista straordinario, ebbe un posto come ispettore delle merci di frontiera a Parigi (da cui il suo soprannome douanier), e nella sua valigia fece entrare in quegli anni tanta pittura da dare una mano a completare la tavolozza a tutta la sua generazione, quella che ne poteva comprare ben poca da impiegare nei quadri che sono oggi gioielli universali.
Che cosa ho portato? Un enorme catalogo generale del Museo d’Orsay, un altro sull’impressionismo astratto, quello con la retrospettiva dell’opera di Inés Tolentino che lei mi ha regalato. La poesia completa di José Triana (con dedica dell’autore de La noche de los asesinos), un grosso dizionario francese-spagnolo.Ho portato creme, profumi e spezie, incensi, una lampada a olio per scacciare le zanzare quest’estate. Ho portato medicine per lo stomaco, per l’influenza, le allergie, i dolori, la nausea; molti medicinali per ripartire e sopportare l’estate lontano da Parigi, varietà di tè, olio d’oliva, una bottiglia di vino rosso, taccuini per gli appunti, i miei dolci preferiti e colorati de La Durée (casa fondata nel 1862); matite, penne, scarpe e vestiti, costumi da bagno, una cartuccia di inchiostro per la mia vecchia stampante, biancheria intima, indumenti pesanti, un piccolo paiolo, una caffettiera nuova, guarnizioni per il mio frigorifero, libri di diversi autori della mia generazione, quelli che qui non trovo e che si prestano all’infinito. Ho portato un cestino per il cucito, una borsa dell’acqua calda, l’apparecchio per misurare la pressione e alcuni quaderni a righe. Due disegni che ho comprato a un giovanissimo pittore di strada che disegnava ricurvo a 13 Rue du Four. Due dischi di magnifiche versioni delle Sonate di Scarlatti. Smacchiatori, lucido da scarpe neutro e alcune goccette per disinfettare l’acqua. Fortuna che non ho portato l’originale di William Navarrete, lui ha insistito e aveva ragione, ora l’avrebbero letto domandandosi perché un collega porta l’originale dell’altro. Il mio asciugacapelli, il mio shampoo. Questi sono gli oggetti che raccontano le vicissitudini della mia quotidianità, la stessa necessità collettiva di avere e offrire tutto ciò di cui c’è bisogno agli amici, oggetti che viaggiano ancorati al fondo della valigia per prolungare il confortante tempo della creatività su quest’isola che amo e difendo come poche cose nella mia vita, quest’isola che tratteggio a bordo dell’aereo, idilliaco pezzo di terra che di colpo mi viene strappato dalla confisca della frontiera. La colpa è di tutti quando non c’è niente e tu ti lasci privare di ciò che hai portato, è un problema di tutti ma, quando aprono la tua valigia, i doganieri si comportano come fossero degli svedesi sbigottiti.
«Che cosa portano gli artisti? Ma che si credono questi artisti? Chi pensano di essere per portarsi tutte queste cose? Perché non si cercano uno specialista che li capisca, che sappiano perché portano funi, parole stampate, indumenti pesanti, colori e compresse per combattere la nevrosi che crea ogni cosa, questa crisi che ti attende al tuo arrivo, qualcuno che ci capisca qualcosa di questi strumenti e di questi aggeggi per creare che nemmeno loro conoscono.»
Guardo le valige, mi fermo, di certo alcune di queste cose ci sono anche qui o a un certo punto si potranno procurare, ma la mia ossessione di non restare senza qualcosa di indispensabile mi fa portare tutto. Ho pagato un supplemento per il peso e qui lo dovrò ripagare.
«Non hai portato elettrodomestici o un DVD, un disco rigido, un cellulare da vendere?»
Non ho portato altro che quello che mi permette di rimanere qui e ora, a creare, a cercare il prossimo motivo per non andarmene da un luogo in cui faccio tutto il possibile per sentirmi bene.
Questo è il paese ideale per lavorare, qui il tempo ha altre caratteristiche, un altro peso, il clima e la luce ti stimolano a concepire idee incredibili. È importante che le cose si rimettano al loro posto.
Nella valigia di Cuba c’è tutta la mia vita. Chiudete tutto e lasciatemi passare che qui dentro viaggia la mia anima.

traduzione di Silvia Bertoli.



giovedì 13 giugno 2013

Cubareale Sito

ALEJANDRO ARMENGOL. REPRESSIONE E PANNOLINI.


9 giugno 2013
traduzione/adattamento e riduzione a cura di Yordan Fuentes De Arnaiz della redazione di Nuovacuba




Alejandro Armengol - El Nuevo Herald




Non ci dovrebbero essere illusioni su un rilassamento del controllo politico sotto il presidente Raul Castro. Il sistema cerca di seminare sconforto assieme alla paura. Gli argomenti possono non essere persuasivi e le risorse utilizzate sono caratterizzate dalla loro mancanza di originalità. La polizia però non è interessata a convincere, ma a persuadere e la mancanza di fantasia è una delle regole del mestiere.

Se a Cuba ci fosse un barlume di democrazia, da anni i fratelli Castro sarebbero stati rimossi dal potere. In primo luogo, perché inetti. Ripeterlo è banale, eppure la ripetizione non ci salva dallo stupore. 

Un rapporto divulgato sul sito digitale Havana Times fa sapere, almeno a quelli nell’esilio, che le madri cubane sono costrette a riutilizzare i pannolini usa e getta. 

“Quasi tutto il corredo per i neonati si acquista nei negozi per riscuotere valuta a un prezzo esorbitante se si considera che lo stipendio base è di 250 pesos (10 CUC)”, ha detto Mercedes González Amade. 

Mentre il bambino è piccolo, c’è la possibilità che i pannolini usa e getta possano essere acquistati, come riferisce Havana Times specificando che quando la taglia è piccola la confezione contiene da venti a trenta pannolini. Con l’aumento delle dimensioni, tuttavia aumenta anche il prezzo e diminuisce la qualità. Così le madri devono valersi dei pannolini già utilizzati, togliere l’imbottitura, lavando dopo il rimanente per poi stenderlo ad asciugare.

“Una volta asciutto, da dove è stato preso quella che è comunemente chiamata “trippa” (l’imbottitura), introduciamo due pannolini di stoffa piegati in quattro e, se per caso, il pezzo che aveva prima dell’adesivo perde il suo effetto, utilizziamo due spilli”, dice González Amade. 

Dover ricorrere a questa soluzione è tipico di una cultura della povertà, in cui la necessità richiede un adattamento della merce in base ad una situazione di miseria. Non c’è un “embargo imperialista” che giustifichi quest’uso. Qualsiasi pretesto ideologico è solo cinismo. Per decenni il regime cubano si aggrappò alla tesi del futuro per deviare qualsiasi sguardo critico al presente. Ora il tutto si riduce a un “si salvi chi può”. 

Se Fidel Castro proclamò che lo Stato si sarebbe preso carico di tutto, dalla formazione superiore fino alla produzione di gelato, quello che persiste ancora oggi è un completo disastro, nel quale convivono i campus universitari in province artificialmente costruite e anziani che vendono coni di arachidi, bambini che mendicano chiedendo qualcosa ai turisti – e più di un video caricato su Internet lo mostra –, e uomini e donne che sopravvivono con stipendi da fame. 

Quando è diventato troppo evidente che il governo cubano non era in grado di soddisfare le esigenze più elementari, non si optò per altra soluzione al riguardo se non di spostare il problema alla famiglia.  

Questa è, in ultima analisi, una delle “vittorie politiche” del regime negli ultimi anni: che i membri della famiglia, soprattutto quelli che vivono all’estero, si occupino della cura degli svantaggiati, in particolare i bambini e gli anziani. Non solo ha buttato giù per lo scarico l’uguaglianza e la vantata giustizia sociale sostenuta per anni, ma l’intero tessuto economico e sociale proprio di qualsiasi paese, dal sistema delle pensioni fino all’offerta di lavoro. 

La differenza per Cuba è che quelli hanno causato la distruzione si presentano ora come quelli in grado di rimediare il disastro, mediante concessioni date a contagocce e decreti legge veloci come tartarughe: il ruolo del governo nelle mani di persone che agiscono in qualità di riparatori di catini, aggiustatori di molleggi dei materassi e venditori di lattine. Con la particolarità che, a differenza di quelli che nel passato, vagando per le strade offrivano questi servizi da poveracci, oggi ci sono loro che si arricchiscono.  

È chiaro che per agire con l’impunità che tuttora dispiegano, l’inganno non basta: devono sopprimere i fatti e le denunce, favorire l’invidia e conservare l’abbandono. 

Il regime cambia le leggi e ordinamenti al fine di perpetuarsi. Tali cambiamenti sono fondamentali per aree della vita quotidiana. Ciò che un tempo era un delitto a Cuba, è ora consentito. Durante il governo di Fidel Castro si era imposta una politica di non essere guidati da una mentalità imprenditoriale, preoccupata per le prestazioni e i profitti, ma di trarre beneficio economico come conseguenza degli obiettivi politici. Raul Castro sembra essere il contrario: l’uomo che vuole “far funzionare le cose”. Solo che nessuno sa come ci riuscirà e l’efficienza continua a essere una frontiera e non una conquista. 


In sostanza però, la capacità o il diritto di esprimere un desiderio di cambiare alcune leggi, così come gli aspetti e le condizioni sociali, oppure la società e il governo nel suo insieme, continuano a essere soffocati a Cuba, come quando questa persecuzione portava le vesti della lotta di classe.

mercoledì 5 giugno 2013

Cubareale Sito


Il ritorno





YOANI SANCHEZ
La valigia appoggiata in un angolo, i piccoli regali che hanno viaggiato al suo interno adesso sono nelle mani di amici e parenti. Gli aneddoti, invece, verranno fuori con il tempo, perché sono così tanti che potrei passare il resto della vita ricordando singoli eventi. Sono già di ritorno. Appena arrivata ho avvertito subito la peculiarità di una Cuba che in tre mesi di assenza non è cambiata molto. Il gran numero di uniformi è la prima cosa che mi è saltata agli occhi: militari, doganieri, poliziotti… perché si vedono tanti uomini in divisa non appena atterriamo all’Aeroporto José Martí? Perché abbiamo l’impressione che ci siano pochi civili e molti soldati? Superate le luci opache dei saloni, sono stata accolta dalla domanda poco amabile di una presunta dottoressa che voleva sapere se fossi stata in Africa. Da dove vieni, figlia mia? Mi ha guardato storto, vedendo il passaporto azzurro con lo scudo della repubblica in copertina. 
Fuori, ero attesa da colleghi e familiari. L’abbraccio di mio figlio, il più atteso. Ho cercato subito di recuperare il mio spazio, immergendomi nel tempo singolare della nostra vita. Dovevo mettermi al corrente di storie ed eventi accaduti nel quartiere, ma anche nella città e nel Paese. Sono già di ritorno. Con una carica di energia che i problemi quotidiani potranno ridurre ma non mi toglieranno mai la forza per intraprendere nuovi progetti. Una tappa della mia vita finisce e un’altra sta per cominciare. Ho visto la solidarietà, l’ho toccata con mano e adesso ho il dovere di raccontare ai compatrioti dell’Isola che non siamo soli. Ho portato con me tanti bei ricordi: il mare di Lima, il Tempio Maggiore in Messico, la Torre della Libertà a Miami, la bellezza di Rio De Janeiro, l’affetto di tanti amici in Italia, Madrid con il Museo del Prado e la Fontana di Cibele, Amsterdam in mezzo ai canali, Stoccolma e i cyber attivisti di tutto il mondo che ho conosciuto, Berlino e i graffiti che coprono quel che resta del Muro che divise la Germania, Oslo immersa nel verde, New York che non dorme mai, Ginevra con i diplomatici e la sede ONU, Danzica intrisa di storia recente e la bellezza unica di Praga. Tutti luoghi che ho portato con me all’Avana, tra luci e ombre, problemi insoluti, momenti di svago e sorrisi. Sono già di ritorno e non sono la stessa persona. Qualcosa dei luoghi dove sono stata mi è rimasto dentro, anche gli abbracci e le parole di incoraggiamento oggi sono qui, insieme a me. 


Traduzione di Gordiano Lupi

Collegamento Internet: 1 ora 2,50 Pesos Covertibles



Cubareale Sito

A Cuba offerta pubblica di accesso
a Internet. 

Sotto vigilanza





Nell’isola non si accede al web dalle case. Previsti 118 Internet point a pagamento, ma resta la censura
CLAUDIO LEONARDI

L’accesso al web dalle case, a Cuba, è ancora privilegio di alcune categorie professionali, tra cui medici e giornalisti. Il governo ha però promesso di rendere attivi sull’isola, il 4 giugno, 118 internet point pubblici, per ampliare le opportunità di connessione a chi non possa sfruttare reti aziendali, scolastiche o situate in grandi alberghi.
Le noti dolenti arrivano sui costi del servizio. Lo stipendio medio dei cittadini cubani è di 20 dollari al mese. Si può quindi immaginare quanto possa pesare l’esborso di 4,5 dollari per collegarsi per un’ora a siti internazionali, cifra che scende a 0,6 dollari per chi voglia navigare solamente su siti nazionali. Una discrepanza che, in tutta onestà, sembra giustificata esclusivamente da una volontà di deterrenza e di allontanamento da fonti di informazione libere dal controllo del governo comunista cubano.
La consultazione della posta elettronica costerà, senza varianti, 1,50 dollari. 
Un’ora di connessione, tra l’altro, potrebbe permettere molto poco se la velocità della tecnologia a disposizione restasse quella finora messa a disposizione a Cuba. A gennaio, Etecsa, la Società di telecomunicazioni locale, ha annunciato di volere agganciarsi a un cavo a fibre ottiche sotto-mare proveniente dal Venezuela, che avrebbe fornito connessioni a internet ad alta velocità.
Nulla però cambierà nella politica di controllo sul web finora esercitata dalle autorità isolane. Etecsa, provvederà “immediatamente” a fermare l’accesso degli utenti se commetteranno “qualsiasi violazione delle norme di comportamento etico promosse dallo stato cubano”, ha precisato il Ministero delle Comunicazioni nel decreto governativo.

Scetticismo e critiche piovono dai dissidenti n patria e all’estero. In prima fila, la coraggiosa Yoani Sanchez, recentemente intervenuta a Perugia, al Festival del giornalismo. Sul suo account Twitter, la blogger cubana ha scritto che “ci vorrà del tempo per avere internet a casa, ma sono sicuro che arriverà... e questo farà male (al governo).”.

mercoledì 29 maggio 2013

LA NUOVA CLASSE CUBANA.


28 maggio 2013
traduzione/adattamento e riduzione a cura di Yordan Fuentes De Arnaiz della redazione di Nuovacuba

Pedro Corzo. Giornalista di Radio Marti



Cuba in assenza del potere assoluto di Fidel Castro è governata come una società finanziaria. C’è stato un passaggio da una dittatura carismatica a una burocratica e quelli che la dirigono, oltre ad avere potere, sono anche molto interessati alle fortune che dal comando possono derivare.
Quest’ultimo aspetto è importante per cercare di capire che gli eventuali cambiamenti nell’isola, saranno limitati dai danni che si possano causare ai privilegi della classe dominante.
La gerontocrazia cubana, in particolare, quella che ha disceso la Sierra Maestra, assieme ai burocrati, vecchi e nuovi, si sono lasciati alle spalle i tempi in cui simulavano di vivere in austerità, mentre il popolo è stato sepolto nella miseria.
I leader castristi considerano i pericoli che hanno corso e gli sforzi fatti per controllare il paese per oltre cinque decenni, mentre si coinvolgevano nelle ambizioni imperiali del Comandante in capo, debbano essere ricompensati. Così hanno deciso, di godersi i vantaggi materiali che derivano dal potere.
La nuova classe cubana, così come l’ha descritta lo jugoslavo Milovan Djila in riferimento a quello che è successo nel suo paese, in ultima analisi, è servita a sostituire le classi dominanti, ma non possiede la capacità di creare ricchezza.
La nomenclatura che ha imposto o che si è incorporata al totalitarismo, gode attualmente una vita comoda, case, automobili e in modo particolare la possibilità di viaggiare all’estero. Inoltre è interessata  a che propri figli e nipoti possano proseguire gli studi superiori, o almeno godere di ciò che hanno costruito imprigionando, uccidendo, e violando i più elementari diritti dei cittadini che non hanno aderito al pensiero e all’autorità del nuovo ordine che è stato imposto nell’isola nel gennaio del 1959.
Molti dei figli e nipoti di questi generali e medici che vivono all’estero sfruttano i beni acquisiti dai loro parenti attraverso l’obbedienza alla dittatura. Altri studiano in università di paesi capitalisti o semplicemente viaggiano senza alcun tipo di restrizioni.
Ci sono quelli che lavorano in società estere con sede in tutta l’isola. Quelli che possiedo buoni stipendi, migliori relazioni e un futuro personale indipendente dalla politica.
Ci sono quelli che hanno creato un proprio business imprenditoriale, il che pone la questione di dove hanno preso le risorse in modo da avere indipendenza economica, non c’è dubbio che può essere stata costruita sul talento e la fatica, o magari perché una mano ha inviato loro i dollari necessari per far partire il progetto che promuovono.
Naturalmente ci sono figli e nipoti di dirigenti cubani che hanno affrontato le difficoltà come i figli di un comune cittadino, perché non possono contare della generosità dei loro genitori o parenti, poiché hanno avuto il coraggio di condannare un regime di oppressione.
La Corporation Governo di Cuba S.r.l. è guidata da Raul Castro, e i suoi azionisti sono generali, dirigenti di partito e medici, tutti molto gelosi delle loro prerogative. In tal modo sono pronti a prevenire eventuali rettifiche che possano togliere equilibrio alla rete che garantisce loro il potere, la ricchezza e l’impunità.
È ragionevole supporre che, mentre Raul Castro esteriorizza la più alta autorità, non potrà mai governare nello stile del fratello, e dovrà conciliare propri interessi e opinioni con il resto del suo direttivo, il quale per logica politica non favorirà un cambiamento radicale che potrà condizionare negativamente i privilegi di cui gode.
Nonostante l’importanza e l’influenza di ogni membro della trama principale, non si può ignorare che Raul ha di gran lunga la chiave del governo.
In assenza di suo fratello è l’unico in grado di tenere la casa in ordine e quindi presumibilmente i suoi associati, più di ogni altro settore della società, lavoreranno per un processo di sistemazione lento e senza traumi che permetta l’emergere di nuovi leader coinvolti abbastanza con il passato. Non per avviare un processo di cambiamento che di cui si può conoscere l’inizio ma non la fine.
Nella memoria collettiva della nomenclatura castrista è presente il processo che ha portato all’estinzione dell’Unione Sovietica. In tal modo essa non è disposta a consentire l’affiorare di contraddizioni interne e conflitti tra poteri che mettano a rischio le loro sicurezze.

Tutti sono consapevoli del fatto che il modello ideologico e politico sul quale dicevano di governare è fallito, ma ugualmente hanno la piena consapevolezza che per far sopravvivere il regime è ancora necessario che un individuo, un solo individuo, come nell’epoca di Fidel, detenga il vero potere.

giovedì 23 maggio 2013

Investimenti USA a Cuba






Investitore USA: – Vero che se parlo bene di voi mi lasciate libero di aprire la mia attività a Cuba?

 Fidel: – Chiaro sciocchino. Non è vero Raul?

 Raul: – Non c’è neppure bisogno di dirlo.

Investitore USA: – Canticchia un motivetto allegro (Cantando sotto la pioggia)

Cubano: – Chi era il signore?

 Raul: – Nessuno. Vai nella tua stanza!

Diffidenza


18 maggio 2013
di Yordan Fuentes De Arnaiz della redazione di Nuovacuba

"L’errore sta tutto nel non fatto,
sta nella diffidenza che tentenna."
Ezra Pound. Canti Pisani

Diffidenza



La nostra amica O era per noi la infiltrata. Non ricordo nemmeno come l’avevamo conosciuta. Il nostro primo incontro è coperto dalla nebbia della dimenticanza. So solo che, a un certo punto della nostra storia lei era lì, tra di noi come una piccola pietra nell’impasto di un dolce. Lei era troppo scomoda e non del tutto amalgamata. Eravamo un gruppetto di ragazzi universitari che si trovava a discutere e a studiare assieme. Due cose strane in quegli anni in cui ormai prevaleva il forte individualismo del “si salvi chi può”. Da un certo punto di vista, se ci penso, siamo stati graziati. Ci vedevamo molto spesso e andavamo assieme alla Biblioteca Nazionale, un viaggio fatto tutto rigorosamente a piedi. Fortunatamente da casa nostra non era molto lontano e il sabato mattina sul presto ci catapultavamo in biblioteca per sfuggire al caldo. Il tutto poteva funzionare in questo modo, prendevamo un tema d’interesse: “postmodernismo e realismo magico”, “i poeti maledetti francesi” e ci buttavamo di capofitto a studiare. Ognuno si occupava di un argomento e dopo la giornata di studio era messo in comune. Avevamo una sconfinata curiosità. Gli indirizzi di studio erano diversi ma ci accomunava quella fame di sapere. Eravamo famelici e tra quelle mura si dovevano nascondere mille tesori che la censura e la scarsità di risorse per lo studio non ci facevano trovare facilmente. Era proprio questa nostra eccentricità poco tropicale a renderci attraenti. Da una parte eravamo affettivamente e intellettualmente molto legati e dall’altra eravamo spalancati verso l’esterno. Sembrava quasi che l’intero universo potesse stare dentro la nostra amicizia. Ogni volta che scoprivamo qualcosa di nuovo, tornavamo bambini che dicevano al mondo: “Guarda questo, che bello!” ma con O non ci era successo così.

O era comparsa… materializzata dal niente. Lei era parecchio più grande, un po’ bipolare e schizzata. D’altronde eravamo nel bel mezzo del Periodo Speciale e tutti eravamo leggermente impazziti. Chiunque nel mondo occidentale, con meno di quattro ore di elettricità giornaliera e nell’ipotesi migliore un pasto costituito da un pugno di riso bollito e una banana, finirebbe nel manicomio. Noi no, eravamo già abituati alle ristrettezze da anni, eravamo soltanto magri e schizzati.  Per O, tuttavia, il suo peccato originale era la sua storia, il suo lavoro, la sua famiglia e non quell’aria da femme fatale e i suoi scatti isterici. Non la sigaretta perenne tra le dita e quella criniera da leonessa da strapazzo. O lavorava in una “Corporación” e abitava dai suoi in un appartamentino carino nel Vedado. Aveva vissuto da ragazza per un periodo nell’ex-URSS e parlava alla perfezione il russo. I suoi genitori già pensionati avevano avuto degli incarichi governativi non meglio specificati. La colpa più ovvia che la incriminava ci è pervenuta dalle sue labbra, quando ci ha detto in modo innocente: – vi ricordate la lettera famosa* in cui il Che saluta Fidel dicendo “mi ricordo in quest’ora di molte cose, di quando ti ho conosciuto in casa di Maria Antonia, di quando mi hai proposto di venire…”, beh quella Maria Antonia che ha favorito l’incontro in Messico era mia zia. Quella era stata per noi la sua confessione e allo stesso tempo la sua condanna.

O era mirabolante a tratti e dire certe cose era il suo modo di rendersi interessante. Magari vaneggiare era la via che aveva trovato per sfuggire alla solitudine, che le restava attaccata con la stessa perseveranza di una cozza alle rocce. Noi invece, con la medesima insistenza durevole eravamo stati allevati alla diffidenza. Eravamo cresciuti indossando sin da subito la maschera nell’ambiente pubblico. Sussisteva dunque questo fenomeno allargato nella popolazione, una frattura sempre più larga tra quello che si pensa realmente e quello che poi si faceva e dichiarava nell’ambiente sociale. Là dove per forza di cose dovevi essere allineato, omologato e di un irreprensibile grigiore. La delazione era una realtà tangibile e più di uno era stato espulso dall’università per aver dimostrato una diversità di vedute politiche. Noi invece in quel caos disumano avevamo trovato un rarissimo spazio di libertà. La curiosità di O e la sua simpatia inspiegabile ci destavano il più intenso sospetto. Per noi dunque non era mai stata respinta del tutto, ma mai accolta. L’ambiguità di quel rapporto era dovuta alla convinzione impiantata nell’ipotalamo: lei era l’infiltrata, era la spia, l’inviata. Noi non avevamo niente da nascondere, ma il sentimento di conservazione era più forte dell’essere ragionevole. Cosa ci faceva poi lì, tra di noi lei che era così diversa, che c’era in fondo così estranea?

Il regime ci aveva buttati nella solitudine. Con questo presupposto ora capisco il suo interesse. Scoprire un gruppo di amici che si trovavano regolarmente per fare assieme qualcosa di utile, in modo spontaneo, senza un evidente tornaconto e per la passione del bello era (immagino) per gli occhi di chiunque il più desiderabile spettacolo.  Noi, tuttavia con O eravamo doppiamente chiusi. Chiusi nel preconcetto che non ci lasciava conoscerla e chiusi per la paura che quello che amavamo ci fosse strappato.

Chi era O? Beh, non ho mai saputo rispondere.

  • Nota come la lettera di addio di Ernesto Guevara a Fidel Castro scritta all’Habana il 1° aprile 1965.

martedì 14 maggio 2013

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Consigli FAO



Ora la FAO consiglia di mangirare vermiper mitigare la fame.

Ai vubani da molto tempo i "gusanos" (esiliati) ci stanno mitigando la fame.

venerdì 10 maggio 2013

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Yoani Sanchez in Italia. Una scusa per parlare di Cuba

 

Questo post per rendere onore a  chi non la pensa esattamente come me, le fonti che si citano nell'articolo e la deriva che ve ne viene sono indubbiamente fonti filo governative cubane anche se l'analisi comparata con il nostro paese è reale : Gianni Minà con la sua Latinoamerica, Eudardo Galeano, ed il famoso e discusso giornalista Salim Lamrani autore di una intervista a dir poco surreale fatta all'avana Yoani Sancez.

Pubblicato il  · in Osservatorio America Latina ·
di Simone Scaffidi Lallaro
Ce l’ha fatta. È riuscita a uscire dal suo paese. Raul Castro ha aperto le frontiere e finalmente se n’è volata via. In meno di tre mesi è già atterrata in ben sette paesi tra Europa e America Latina: sono caduti uno dopo l’altro il Brasile, la Repubblica Ceca, la Svizzera, gli Stati Uniti, il Perù e la Spagna, ora è toccata all’Italia. Agli occhi del mondo occidentale Yoani Sanchez rappresenta indiscutibilmente l’eroina democratica di Cuba. La ragazza dalla faccia pulita ma anche sbattuta e smagrita (forse proprio a causa delle condizioni di povertà che il suo paese le impone) che lotta quotidianamente contro un regime considerato da lei e dalla maggioranza dei paesi occidentali una dittatura. La blogger in pochi anni ha conquistato l’etere grazie alla potenza di internet e a uno dei trend topic più celebrati dal mondo capitalista dominato dai mercati: se lavori, se lotti con tutte le tue forze per una giusta causa – o nel suo caso per il bene del tuo popolo –, beh.. allora puoi farti da solo, emergere dall’oblio e occupare un posto di prestigio nel ranking dei media mondiali. Lei, Yoani, la cubana dalla faccia pulita e dal dito inverosimilmente svelto, ce l’ha fatta.
Sembra che in Italia crediamo ancora a queste storie o per lo meno è quello che traspare leggendo le maggiori testate nazionali. L’occasione per rinnovare la fiducia nel sogno americano del self-made man ma al passo coi tempi (non a caso Yoani è una self-made-woman) è data dalla sua prima visita italiana correlata di partecipazione al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia. Leonardo Mala non tarda a sfornarequesto articolo per La Repubblica, Anna Masera intavola questo pezzo per La Stampa e la redazione online del Corriere della Sera ci offre la sua opinione per dessert. Ingrediente del giorno è la contestazione rivolta a Yoani Sanchez da alcuni manifestanti poco prima del suo intervento al Festival. Le prime battute degli articoli sono sommarie, la parola filo-castristi rieccheggia minacciosa e non lascia scampo al lettore.
La realtà viene immediatamente semplificata e i suoi attori cristallizzati in buoni e cattivi, santi e mostri: da una parte Yoani (dalla faccia pulita) e la democrazia, dall’altra Castro (Fidel o Raul è indifferente) e la violazione dei diritti umani (assorbiti in toto dalla demonizzazione del partito unico cubano). 
Il risultato è netto, senza resti, contraddizioni o ripensamenti: se contesti o critichi Yoani sei automaticamente un nemico della democrazia e per di più vieni tacciato di «filo-castrismo» che tu lo voglia o meno. Il bianco e nero delle prese di posizioni senza sfumature giunge al culmine: Yoani «per il governo di Cuba è una mercenaria al soldo degli imperialisti americani» ma «per il mondo libero è il simbolo della lotta per i diritti umani»{{1}}. La barriera tra bene e male è eretta.
Mi chiedo dubbioso a quale mondo ci si stia riferendo. Mi domando poi perché quando si parla di diritti umani a Cuba si porti sempre ad esempio il carattere non-democratico del regime castrista e le limitazioni politiche che impone la presenza di un solo partito. Non vorrei essere frainteso, le critiche sono necessarie, ma per quale motivo si parla solamente di diritti umani negati e non di diritti umani garantiti? Forse perché non possiamo nemmeno immaginare e soprattutto tollerare che un paese povero e sottosviluppato possa darci lezioni di diritti umani. La convinzione diffusa che nulla a Cuba possa essere migliore rispetto al nostro mondo è una realtà più forte che mai. Ma se ci fermiamo un attimo ci accorgiamo che molti dei diritti che pensiamo essere scontati nel nostro paese – diritto alla casa, alla sanità e all’istruzione gratuita – sono in realtà privilegi di alcuni.
Il regime non-democratico cubano garantisce istruzione totalmente gratuita (compresa l’università) e assistenza sanitaria gratuita per tutta la vita ai cittadini del proprio paese. Chi ha viaggiato in America Latina sa che di bambini le strade sono piene e non giocano a pallone, ma vengono sfruttati per lavori di ogni genere o abbandonati al loro destino di senza fissa dimora. A Cuba gli stessi bambini che altrove vagano per le strade sono tutti a scuola e posseggono una casa, come chiunque altro.
La percentuale di donne e uomini che vivono nelle strade a Cuba è vertiginosamente inferiore a quella di qualsiasi città europea ed il confronto con altre realtà latinoamericane risulta imbarazzante. A Cuba nessuno muore di fame e la carne di porco o pollo la mangiano tutti i giorni (checché ne dica Yoani: «non riuscivo a vivere altrove. Ogni volta che mangiavo un piatto di carne pensavo alle privazioni dei miei concittadini, alla loro difficoltà di vivere che è la mia di ogni giorno. Io voglio essere utile al mio Paese e alla mia gente»{{2}}, il che – se si analizzano le motivazioni profonde che innalzano il consumo di carne e uova a Cuba – non è una cosa positiva in sé perché porta a una dieta squilibrata imposta dalle scarse risorse produttive dell’isola e soprattutto dal criminale embargo economico che viola e ignora qualsiasi supposto diritto umano.
Mi chiedo poi se Yoani, durante il suo recente viaggio in Brasile, ha vissuto le strade di Salvador de Bahia al calar della notte. Se ha visto l’esercito di fantasmi che vagano e dormono sull’asfalto, se ha provato sulla sua pelle l’insicurezza del cammino, la necessità di prendere precauzioni se si decide di condividere quel pezzo di cielo nero con loro. Un altro diritto tanto caro alle posizioni destrorse italiane e che a Cuba è ampiamente garantito è il diritto alla sicurezza. Trovarsi in una situazione di paura a L’Avana o Santiago de Cuba è davvero difficile mentre in una città come Rio de Janeiro a qualsiasi ora del giorno non è consentito distrarsi, né imboccare una strada secondaria poco illuminata, né passeggiare liberamente nel quartiere Centro dopo le sette di sera.
L’esercito di fantasmi della storia è lì ad aspettarti più incazzato e disperato che mai, pronto a riprendersi quel briciolo di giustizia sociale che quel mondo gli ha sempre negato e gli continua a negare. Per queste ragioni molti pensano che la società meno ingiusta di tutta l’America Latina sia quella cubana e per la stessa ragione molti guardano con grande sospetto all’eccitazione collettiva che segue la crescita esponenziale del PIL brasiliano. Tra questi, la maggioranza di coloro che mettono radicalmente in discussione un modello di sviluppo economico infinito e insostenibile, che è quello dominante.
Ma torniamo un momento in Italia. Sanità: è di pochi giorni fa la notizia che gli italiani a causa della crisi hanno ridotto drasticamente visite specialistiche e controlli medici. Molti non riescono più neppure a pagare il ticket per garantirsi le cure. Letteralmente esclusi dal sistema sanitario italiano sono costretti a rivolgersi a organizzazioni no-profit del calibro di Emergency. Istruzione: «Quest’anno a Bologna più di 300 bambini sono rimasti esclusi dalla scuola pubblica, che è un diritto costituzionale, per mancanza di posti e risorse. Saranno costretti a frequentare una scuola dell’infanzia privata, a pagarne la retta e a sottoscrivere un progetto educativo che non condividono (nel 99% dei casi confessionale). E l’anno prossimo quanti saranno gli esclusi dalla scuola pubblica?»{{3}} Ogni anno il Comune di Bologna versa un milione di euro nelle casse delle scuole d’infanzia private, denaro pubblico per garantire l’istruzione ai figli dei ricchi. Dove sono i diritti?
Quando si alza il tiro e la soglia di complessità si eleva il concetto semplificato di diritti umani assume forme diverse e meno retoriche mettendo radicalmente in crisi i confini del mondo libero di cui abbiamo la convinzione e l’orgoglio di far parte. Inutile ripararsi dietro sterili giustificazioni e nascondersi dietro la Crisi: «noi siamo i ricchi, loro i poveri. Noi chiudiamo gli asili, loro li costruiscono, noi li facciamo pagare, loro no, come cazzo è possibile?!»{{4}}. Noi ci vantiamo della nostra democrazia, loro hanno il partito unico. Eppure ci riescono lo stesso. Da noi la Crisi è cominciata nel 2008, da loro nel 1959. Dovrebbe essere più facile per noi. Perché non è così?
Fa sorridere poi l’infelice scelta del giornalista de La Repubblica che riporta le parole di Yoani Sanchez in riferimento a Raul Castro: «il suo è un peccato originale. Raul non è stato eletto, ha ereditato il potere per questioni di sangue, qualcosa di inimmaginabile nel terzo millennio»{{5}}. Esattamente, qualcosa di inimmaginabile, tanto meno in un mondo libero e democratico. Eppure. Eppure succede anche qui. Un anno e mezzo fa Mario Monti è diventato capo del governo italiano senza che nessuno, o meglio soltanto uno, lo avesse eletto. La successione non è stata democratica e si può in buona misura parlare anche qui di successione di sangue: sangue moderato e con globuli compiacenti Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale s’intende. Pochi giorni fa Enrico Letta è stato nominato nuovo capo del governo italiano, ancora una volta da quello stesso uno che aveva eletto Mario Monti, ancora senza libere elezioni, ancora non democraticamente.
I loro problemi sono i nostri. Possiamo fare finta di niente e non ammetterlo ma le contraddizioni di Cuba – se analizzate, ripensate e criticate – non fanno che radicalizzare le contraddizioni del nostro mondo. Quel mondo che ci ostiniamo a definire giusto, libero e democratico. Lo stesso che sta crollando pezzo dopo pezzo sotto i colpi dei mercati e che continua a nutrirsi di ingiustizia sociale. Quel mondo che Yoani Sanchez loscamente ma con la faccia pulita difende.
Davvero pensiamo che questo sia il meno peggiore dei mondi possibili? Abbiamo ancora il coraggio di crederlo? Siamo davvero così stolti?
Breve guida alla conoscenza di Yoani Sanchez
Chi c’è dietro Yoani Sanchez? (in spagnolo) (in italiano) di Salim Lamrani
Conversazione con la blogger cubana Yoani Sanchez (I parte) (II parte) di Salim Lamrani
E a proposito di diritti umani:
[[3]] Comitato Art. 33, Il referendum
[[4]] Wu Ming 4, L’anomalia Cuba, luglio 2004